“Braveship”, come nasce una leadership diffusa. Intervista a Francesca Moriani

«Ferie libere e autodeterminazione dello stipendio non significano anarchia, ma responsabilità».

«Le persone non si gestiscono, delle persone ci si prende cura».

«Uscire dalla zona di comfort rallenta l’efficienza nel breve periodo, ma è l’unico modo per costruire un’organizzazione capace di evolvere».

Sono alcuni dei temi sollevati da Francesca Moriani, Ceo di Var Group, nel libro Braveship (Ed. Egea). Una lettura in cui i contorni tra la vita professionale e quella personale si assottigliano, fino a sfumare l’una nell’altra. Perché la crescita di Moriani come manager non può prescindere da quella come donna. Nel libro, come nell’intervista che segue, la Ceo spiega come sia arrivata a far evolvere la cultura organizzativa di una realtà che conta oltre 4.000 persone in chiave aperta e collaborativa. Non nascondendo errori e cambiamenti in corsa. Un viaggio che parla di autonomia, nuove competenze e inclusione. Ma soprattutto del coraggio di condividere il potere.

Partiamo dal titolo: perché “Braveship”?

«“Braveship” nasce da una convinzione profonda: per trasformare un’organizzazione, servono coraggio e una nuova forma di leadership. Parlo di un coraggio che porta alla luce ciò che non va invece di nasconderlo, mettendo in discussione i vecchi schemi, aprendosi al cambiamento per creare relazioni più vere e trasparenti. La mia Braveship nasce da lontano, dal mio essere ribelle e dalla mia incapacità di accettare, fin dai tempi del mio MBA a Brighthon, uno stile di leadership vecchio che metteva un’enorme distanza tra i manager e le altre persone, obbligando chiunque a indossare una maschera. Cresce, poi, nelle varie esperienze lavorative fino a quando sono arrivata nel 2014 in Var Group, dove ho trovato un terreno fertile.

“Braveship” è un percorso che, dopo alcuni tentativi anche fallimentari, si sta concretizzando nella revisione organizzativa di Var Group secondo il modello di Open Platform Organization. La sfida non è stata solo ridefinire processi o ruoli, ma cambiare il modo in cui si pensa, si agisce, si gestisce e si redistribuisce il potere. E questo richiede una trasformazione radicale, che non si può affrontare senza una dose di sana follia, responsabilità, autonomia, rigore e creatività. “Braveship” esprime questo equilibrio. È un invito a prendere l’iniziativa, a superare la leadership tradizionale e abbracciare un modo nuovo di guidare, senza alibi. È ciò che vedo ogni giorno nelle 4.400 persone di Var Group, in Italia e all’estero, che si sono messe alla prova in questo viaggio».

È un coraggio innato o si può allenare? Quali sono le competenze da cui partire?

«Penso sia necessario rivedere cosa significa “guidare”. Non è comandare, non è dare ordini o esercitare controllo. Un leader è un vero e proprio facilitatore che fa sì che tutte le persone possano esprimere le proprie competenze, sa aprirsi e sa condividere l’autorità e le responsabilità. Tutto si basa sulla fiducia, sulla trasparenza e sulla condivisione. In molte aziende si ha il timore di sbagliare, di essere giudicati o puniti. Per questo promuovo la cultura della competenza: chi ha le competenze ha il potere di decidere nel proprio ambito di azione. Per quanto riguarda l’errore, è un percorso naturale, e più velocemente si sbaglia, prima si arriva a generare valore e restare competitivi. È un modo di lavorare che si costruisce nel tempo, attraverso ambienti sicuri e relazioni autentiche.

A fine luglio, ad esempio, abbiamo ospitato un evento nella nostra sede di Milano per parlare di organizzazione diffusa con Zhang Ruimin, Presidente di Haier che per primo ha dato vita a un modello simile, il RenDanHeYi. Tra gli ospiti, William Fischer, docente di innovazione e management alla MIT Sloan School of Management e all’IMD di Losanna, ha evidenziato un punto cruciale: la maggior parte delle organizzazioni in futuro dovrà accedere a competenze che oggi non possiede e dovrà farlo senza espandere i propri organici o inglobare tutto all’interno. La sfida sarà costruire relazioni solide, lavorare in ecosistemi aperti, creare connessioni con partner e reti esterne. Secondo Stuart Crainer, co-founder della piattaforma Thinkers50 (che diffonde le idee più influenti nel campo del management e della leadership), l’enorme quantità di dati sui clienti è inutile senza relazione. La vera sfida è costruire legami autentici, superando la sola logica degli algoritmi in favore dell’interazione umana. È lì che si giocherà la capacità di restare rilevanti. Diffondere la leadership vuol dire superare questi ostacoli e mettere le persone nelle condizioni di esprimere il proprio valore, non solo di eseguire. Ed è anche il modo più intelligente per far crescere un’impresa: liberando energia, creatività e senso di appartenenza».

Proponi un modello organizzativo innovativo, fatto di ferie libere e autodeterminazione dello stipendio. Cosa è accaduto in azienda a seguito dell’introduzione di questo modello?

«Il nostro modello si basa su un principio semplice ma radicale: la libertà si nutre di confini chiari. Ferie libere e autodeterminazione dello stipendio non significano anarchia, ma responsabilità. Le persone possono deciderle perché hanno accesso alle informazioni, conoscono le regole condivise e sanno valutare l’impatto delle proprie scelte, prendendo la decisione migliore per sé stessi e per l’azienda. Forse la prima volta ci saranno degli errori di valutazione, ma sarà il trampolino per fare meglio la volta dopo. È una cultura del permesso consapevole che abilita l’azione.

I risultati si vedono: team più coesi, meno conflitti, maggiore velocità decisionale e più energia per generare valore. Ma non è stato un percorso lineare. Il primo tentativo, quando ho provato ad applicare il modello da sola, è stato un fallimento. Il mio desiderio iniziare di eliminare del tutto le regole era qualcosa di totalmente sbagliato. Ho capito che non basta toglierle: serve una struttura abilitante, serve formazione, serve pratica. Per questo ci siamo affidati a Kopernicana, società di consulenza, e abbiamo lavorato per dare vita a un nuovo modello organizzativo, una sfida enorme per un’azienda così grande come la nostra. Le resistenze ci sono ancora. Alcuni si sono sentiti spaesati e hanno scelto di andare via. È normale: uscire dalla zona di comfort rallenta l’efficienza nel breve periodo, ma è l’unico modo per costruire un’organizzazione capace di evolvere. Il “si è sempre fatto così” è il freno più potente al cambiamento.

Per approdare a modelli di questo tipo, le organizzazioni devono ripensare il ruolo della leadership. Servono leader che sappiano ispirare, non “gestire”. Anche perché le persone non si gestiscono, delle persone ci si prende cura. Tali leader devono saper creare spazi sicuri dove ognuno possa agire con libertà e consapevolezza. Non deve esserci una elargizione di compiti, che per errore prospettico chiamiamo responsabilità. E servono regole chiare, definite non dall’alto, ma da chi le vive ogni giorno. Solo così avranno senso e saranno davvero condivise. Se si riesce a chiarire con precisione cosa è consentito e cosa no, si ottengono due risultati fondamentali. Il primo: si crea un argine all’anarchia, evitando il caos organizzativo. Il secondo: si definisce un perimetro sicuro entro cui i team possono agire con libertà e responsabilità. Perché la vera autonomia non nasce dall’assenza di regole, ma da poche regole chiare e condivise con tutte le persone.

In questo contesto, una leadership aperta non è lassista. È esigente, ma generativa. E se funziona, lo si vede da lì: quando le persone sono in grado di scegliere ferie e stipendi in autonomia, vuol dire che il sistema ha funzionato. Vuol dire che la fiducia ha messo radici».

Eppure, proprio la fiducia nei confronti delle aziende e dei leader sembra attraversare una profonda crisi, soprattutto per i più giovani.

«Il nostro modello, ispirato al principio di Zero Distance, che riduce le distanze tra azienda, clienti, dipendenti e stakeholder, è un terreno fertile dove la leadership non è verticale, ma condivisa. Si cresce insieme. Questo approccio non è solo più umano, è anche più efficace. I dati lo confermano, soprattutto se guardiamo alle nuove generazioni. Secondo Deloitte, 7 giovani su 10 ritengono fondamentale lavorare in ambienti che promuovano creatività, autonomia e superamento dei modelli tradizionali. E la metà è pronta a lasciare il lavoro se non si sente valorizzata. Il messaggio è chiaro: la fiducia si costruisce anche allineando i valori tra azienda e persone. Il 2024 Global Workforce Hopes and Fears Survey di PwC lo ribadisce: il 76% dei giovani vuole lavorare in aziende che si impegnano per il bene comune, includendo la salvaguardia dell’ambiente e il rispetto per il mondo animale. Le imprese non possono più permettersi di essere sorde a queste richieste. La leadership deve ascoltare, interpretare e agire.

Perché quando la fiducia viene meno, i segnali sono evidenti: burnout, assenteismo, turnover. Ma non serve arrivare a questi estremi per capire che qualcosa non funziona. Togliere autonomia, riconoscimento e coinvolgimento è altrettanto letale. E spesso, nella managerializzazione, chi assume un ruolo di responsabilità cerca prima di tutto la gerarchia, per collocarsi nello scacchiere. Ma la vera leadership non si misura in caselle, si misura nella capacità di creare spazi di senso per gli altri. La risposta alla crisi di fiducia non è nel controllo, ma nella condivisione del potere».

Anche chi si occupa di HR dovrebbe evolvere per poter intercettare meglio i bisogni dei nuovi lavoratori?

«Senza dubbio. Come racconto in Braveship, il cambiamento non passa solo dalle grandi strategie, ma da piccoli cantieri organizzativi: le riunioni, i processi, i momenti di scambio. Sono questi i luoghi dove, con interventi mirati, si può generare un impatto reale. L’HR deve diventare capace di leggere i bisogni e tradurli in soluzioni quotidiane. Oggi è evidente che esiste una distanza reciproca tra giovani e imprese: secondo il Monitor del Lavoro di Federmeccanica del 2025, ad esempio, oltre la metà dei candidati under 30 conclude un colloquio dicendo “le farò sapere se la vostra proposta mi va bene”. Il potere negoziale si è spostato, e le aziende devono prenderne atto. Ecco perché, nella nostra azienda, abbiamo introdotto percorsi di welfare dedicati alle diverse fasce d’età che la popolano: mutui under 35, smart working, benefit per asili nido, estensione della paternità. Progetti nati dal confronto interno e implementati con entusiasmo dal team HR».

Da CEO donna in un settore ancora molto maschile come quello ICT, cosa dovremmo fare per favorire la parità di genere nel mercato del lavoro?

«La parità di genere non si conquista con una dichiarazione d’intenti, ma con un lavoro quotidiano, concreto e spesso silenzioso. E soprattutto, si costruisce partendo dalle fondamenta. La possibilità di una carriera nei lavori tech viene presentata ai bambini, molto meno alle bambine. È lì che si crea il primo divario, quello delle aspirazioni. Dobbiamo dire alle studentesse, fin da subito, che hanno tante libertà e scelte quanto i loro compagni. E per farlo, serve rappresentazione. Se mancano donne nei vertici delle aziende ICT, chi possiamo indicare loro come modello? A oggi, quasi un terzo degli uomini lavora nei settori STEM, quelli a più alta retribuzione. Le donne, invece, sono spesso indirizzate verso percorsi meno valorizzati, e più esposti alle interruzioni di carriera. Nel 2023, il divario retributivo medio di genere nell’UE era ancora del 12%.

Nel mio ruolo, mi impegno personalmente: incontro le scuole e parlo soprattutto alle ragazze. Perché la parità non si impone, si ispira. E si difende anche nei piccoli gesti quotidiani. Come racconto in Braveship, negli anni ho partecipato a decine di meeting in cui gli interlocutori si rivolgevano non a me, ma al collega seduto accanto. All’inizio pensavo fosse una questione di età, di seniority. Poi ho capito che c’era qualcosa di più profondo: un maschilismo inconsapevole, radicato nel nostro cervello. E con “nostro” intendo tanto quello degli uomini quanto quello delle donne. Per questo, dobbiamo dire no alla stereotipizzazione. Per me, essere donna in questo mondo ha significato sottrarmi ai condizionamenti sociali, lottare ogni giorno contro una servitù di genere che è subdola, silenziosa, ma ancora presente. Portare avanti queste battaglie smontando uno stereotipo alla volta è il modello migliore che possiamo offrire alle nuove generazioni».

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