Asset intangibili, se la crescita passa da ciò che non si vede
Sempre più spesso, la competitività di un’impresa si gioca su ciò che non si vede: cultura organizzativa, reputazione, relazioni, capacità di innovare, sicurezza psicologica, conoscenza tacita. È quel “valore invisibile” che tiene insieme persone e strategie, che fidelizza clienti e coinvolge i talenti, che trasforma un brand in una comunità e un’organizzazione in un corpo vivo. Eppure, nelle aziende, questo patrimonio resta spesso sottovalutato, non misurato, relegato a costi accessori.
Carlotta Silvestrini, imprenditrice, founder della advisory company Mudra, e docente in diverse università italiane, da anni lavora per trovare, strutturare e capitalizzare questi asset intangibili, trasformandoli in vantaggio competitivo misurabile. Con lei, abbiamo parlato di come superare la miopia manageriale e favorire la crescita proprio attraverso ciò che non si vede.
Quando parliamo di “valore invisibile”, a cosa ci riferiamo concretamente? Quali sono, secondo te, gli asset intangibili più sottovalutati nelle imprese italiane?
Nel libro Sapiens: da animali a dèi, lo storico Harari spiega come “ci siamo evoluti in grandi gruppi sociali attraverso il tramandare di un’unica storia in cui migliaia di persone potessero credere e riconoscersi”. L’esempio viene poi calato sul mondo aziendale: un’impresa non è fatta dalle persone che vi lavorano, dai prodotti immessi sul mercato o dagli uffici. L’azienda è tenuta insieme da una storia comune. Io aggiungo che questa narrativa univoca e condivisa è bidirezionale: verso il mercato (posizionamento) e verso l’organizzazione stessa (cultura, valori, visione, missione…). Se manca la narrativa, viene meno la possibilità di esistere sul mercato. Questo è un primo valore invisibile, sintetizzabile nel brand e nel capitale umano e organizzativo, a cui si aggiungono dati, processi e tutti quei frammenti invisibili costituiti da informazioni che, se raccolte e messe a valore, compongono l’interezza del capitale intangibile. Potrei dire che sono sottovalutati tutti in egual maniera, perché siamo culturalmente abituati ad associare il concetto di valore a ciò che tocchiamo e produciamo. I libri di economia comportamentale sono stati scritti da decenni, ma continuiamo a stupirci se il consumatore non segue una logica razionale nei percorsi d’acquisto. La psicologia sociale descrive alla perfezione le dinamiche di gruppo, ma ci ostiniamo a voler gestire l’organico con strumenti burocratici alternati a inconcludenti sessioni di team building.
Perché oggi – più di ieri – la reputazione, l’identità e le relazioni diventano fattori competitivi?
Il mix mercati saturi – sovrabbondanza informativa è il principale attore di questa evoluzione. Siamo sottoposti a circa 33.000 messaggi pubblicitari al giorno (ricerca 2023 Omnicon Media Group) e il nostro cervello non solo non riesce a gestirli, ma inizia a rifiutarli perché generano un importante affaticamento cognitivo. Quindi, per scegliere, optiamo su ciò che ci fa sentire al sicuro: il parere di una persona fidata che, consigliando, è come se scegliesse al posto nostro (relazione), il posizionamento specifico e consolidato (identità), un’affidabilità comprovata nel tempo (reputazione). A questo, va aggiunta la sfiducia generata dalla ormai scarsa credibilità dei messaggi pubblicitari, alla quale l’Ai sta dando il colpo di grazia. In parole semplici, il nostro cervello sta scegliendo di vivere e decidere con modalità pre-internet.
Con l’arrivo dell’AI, molti ruoli stanno cambiando pelle. Che cosa significa, dal tuo punto di vista, “proteggere” e valorizzare le competenze intangibili delle persone in un contesto di automazione crescente?
Sull’Ai mantengo un cauto entusiasmo e sono in disaccordo con la narrativa finalizzata a pompare i risultati dei mercati finanziari. Alcuni ruoli cambiano pelle, ma siamo ancora in una fase dove la differenza la fa ancora il valore umano, a condizione che ci sia davvero. Con questo intendo dire che un professionista mediocre può essere sostituito da un’intelligenza artificiale. Le competenze intangibili assumono una veste nuova, duale: identifico il perimetro in cui sarò sempre un valore aggiunto e miglioro la mia preparazione in quel frangente, al contempo imparo a costruire prompt e usare agenti Ai che mi completano nelle attività routinarie. I manager devono mettere in conto il coinvolgimento di professionisti interni o esterni in grado di identificare queste aree e valutare un upskilling strutturato. Questo porterebbe diversi benefici: anticipare le mosse della concorrenza, rimanere appetibili per i membri del team più sensibili alle nuove tecnologie che avrebbero possibilità di sperimentare e mettersi in gioco su nuove sfide, creare una percezione di tutela del ruolo per chi si sente minacciato dalla narrativa sui licenziamenti massivi che, vorrei ricordare, non dipendono tanto dalle Ai, ma dagli esuberi post pandemia.
Mudra nasce per “trovare, strutturare e capitalizzare” il valore che solitamente non si misura. Da dove si parte quando si vuole mappare il valore invisibile di un’impresa?
Gli asset intangibili sono fatti di informazione, quindi il primo passo e sapere dove cercare e come trovare gli elementi che definiamo “mission critical” per quella specifica realtà in uno specifico settore. Per farlo, serve un professionista molto preparato, con visione orizzontale, che li rileva nell’arco di poche sessioni – di solito due o tre – presso il cliente e li rapporta con il mercato e i suoi attori. Per la nostra esperienza, in Italia si va a colpo sicuro su tutto ciò che è capitale umano e organizzativo, perché nella maggior parte dei casi è da lì che partono tutte le carenze. Una volta ristabiliti ordine e fiducia, come per magia il risultato operativo migliora, i processi sono più fluidi, le performance individuali e collettive tornano a essere compatibili con le necessità di business.
Molte aziende sono ancora ancorate al paradigma del “controllo”. Come si fa a convincere un board che investire sugli intangibili non è qualcosa di etereo, ma un vantaggio competitivo misurabile?
Il cambiamento culturale è lento, quindi dobbiamo puntare sui casi studio e su un sistema di misurazione in grado di dimostrare la correlazione tra un intervento sul capitale intangibile e il risultato. Noi lavoriamo molto per affinare le metriche e supportare i clienti nella comprensione del rapporto causa-effetto. Una difficoltà ulteriore è data dall’assenza del termine “asset intangibile” nel vocabolario d’impresa quando si parla di brand, know-how, persone, processi. Il fatto stesso di non considerare “asset” ciò che può creare valore, ma vederlo solo dal punto di vista dei costi sostenuti è uno dei più grandi fallimenti della mentalità manageriale.