Economia dell'attenzione: tra falsi miti e verità, nell’era delle distrazioni

In un mondo in cui siamo sollecitati da troppi stimoli e utilizziamo senza misura gli strumenti tecnologici, la nostra soglia di attenzione sembra essersi ridotta a 8 secondi, meno di quella di un pesce rosso. Un’ampia letteratura analitica, tuttavia, sostiene che questa affermazione altro non sia che un mito alimentato da evidenze non scientifiche, sfruttando il bias retrospettivo. Questa distorsione cognitiva ci induce a guardare al passato con nostalgia e a percepire una perdita piuttosto che un guadagno, identificando come causa dei problemi le recenti innovazioni. Per comprendere meglio i meccanismi che regolano il cervello umano e ottenere una vista più completa della situazione attuale, proviamo a ripercorrere con spirito critico le tappe salienti della storia della nostra attenzione.

Il carico cognitivo

È il 1956 quando lo psicologo cognitivo George A. Miller pubblica un articolo dal titolo insolito: “Il magico numero sette, più o meno due”. Sette è il numero medio di pezzi di informazione che la mente umana è in grado di trattenere. Con pezzo di informazione si intendono diverse unità di contenuto, come numeri, lettere o concetti tra loro correlati. Ad esempio, i numeri di cellulare vengono suddivisi in blocchi di cifre per essere ricordati più facilmente. La nostra capacità mnemonica è influenzata da diverse variabili, tra cui il carico cognitivo, indicato dall’esperto come il fattore più significativo. Questa “legge” è la prima linea guida che promuove la riflessione sulla facoltà umana di elaborare e processare le informazioni. La sua influenza si fa sentire ancora oggi nei principi che regolano il mondo della User Experience: i designer puntano a progettare siti web e applicazioni sempre più semplici, intuitivi e fruibili, riducendo il quantitativo di informazioni in pagina (es. tramite menu con elementi richiudibili) e suddividendoli in più parti (es. schermate di tutorial in App, ognuna focalizzata su uno specifico passaggio).

Bisogna attendere ancora qualche anno prima che si parli di “economia dell’attenzione”: il primo a farlo è Herbert Simon, professore alla Carnegie-Mellon University di Pittsburgh e Premio Nobel per le scienze economiche nel 1978. Con decenni di anticipo, l’economista sostiene che la ricchezza di informazione consuma l’attenzione di chi la riceve. Questa asserzione risuona oggi con straordinaria potenza.

L’impatto della digitalizzazione

Torniamo al presente con la voce dello psicologo cognitivo Stefan Van der Stigchel, a capo del gruppo di ricerca AttentionLab dell’università di Utrecht. L’esperto afferma che non ci sono ancora studi scientifici comprovati a supporto della tesi che mette in correlazione l’aumento della digitalizzazione con la diminuzione della nostra capacità di attenzione. È probabile che ciò sia accaduto, ma non ne abbiamo conferma e non sappiamo in che misura: senza dubbio è possibile affermare che non utilizziamo questa capacità nel modo ottimale. Conoscerne le dinamiche e i meccanismi può aiutarci a migliorare.

Il primo concetto da sapere è la distinzione tra attenzione e concentrazione. La prima è una risorsa limitata che opera la selezione di un flusso di informazioni in entrata, la seconda agisce come supporto all’attenzione, permettendo di sostenere il focus su un determinato tipo di informazione per periodi più lunghi.

La distinzione tra attenzione e concentrazione

Concentrarsi è sempre stata un’operazione complessa che richiede esercizio, dato che il cervello funziona come un muscolo. La concentrazione è legata alla cosiddetta “working memory” ossia alla memoria di lavoro, che utilizziamo per svolgere i compiti più complessi che non possono essere eseguiti in modalità “pilota automatico”. Questa memoria può focalizzarsi solo su un’attività alla volta ed è molto fragile perché non appena veniamo distratti interrompiamo quasi istantaneamente ciò che stavamo facendo. È più semplice ora capire perché concentrarsi è una sfida nell’era del multitasking e delle distrazioni. Il multitasking (ossia la capacità di svolgere più attività contemporaneamente) può risultare vantaggioso in certe circostanze, ma problematico quando è richiesta una concentrazione prolungata. In quel caso, ricorriamo alla nostra memoria di lavoro che può gestire una sola attività alla volta. Se intendiamo gestire più compiti in simultanea, dobbiamo necessariamente terminarne uno prima di passare al successivo, con un dispendio notevole di tempo ed energie (in gergo tecnico si parla di “switching cost”) unito ad una maggiore possibilità di compiere errori.

Le continue distrazioni, come quelle comuni all’interno di un ufficio open-space o dovute alla notifiche dei social media, compromettono ulteriormente la concentrazione: riprendere il focus su un’attività complessa comporta tempo e fatica, con un incremento del carico di frustrazione e stress.

Van der Stigchel suggerisce infine alcuni accorgimenti per migliorare la propria concentrazione, tra cui: l’importanza di allenarsi a concentrarsi con adeguate pause per consolidare quanto appreso e ricaricare le energie; la meditazione, che si rivela un training efficace per potenziare la capacità di focus su un’attività alla volta; la disconnessione in determinati momenti della giornata per evitare sollecitazioni continue legate alla consapevolezza di avere messaggi o notifiche da controllare.

Appare dunque chiaro che, nonostante non esistano fondamenti scientifici a supporto della “teoria del pesce rosso” e della sua ipotetica soglia media di attenzione di 8 secondi, questa rappresenta un tema reale e una sfida tangibile nell’attuale scenario di accelerazione innovativa e interconnessione globale.

Ti potrebbe interessare