Perché nell’era digitale ci fa bene scrivere a mano

Tutto è diventato più veloce, eppure pensiamo di non avere mai abbastanza tempo. La tecnologia ci aiuta a semplificare e ottimizzare molte attività che impiegano tempo: la scrittura a mano è una di queste, ormai ampiamente sostituita dalla sua controparte digitale. Un’antica forma d’arte quasi perduta, che sopravvive nei ricordi dei nostalgici e che stiamo gradualmente disimparando sin dai primi anni scolastici, in cui la dimestichezza con la tastiera di uno smartphone supera già di gran lunga l’abilità di impugnare una penna.

Di recente, si è festeggiata la Giornata Mondiale della Scrittura a Mano Libera, istituita il 23 gennaio in onore del compleanno di  John Hancock, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America: oltre ad essere un politico di spicco e un rinomato uomo d’affari, Hancock è famoso per la sua elegante e sovradimensionata firma sulla Dichiarazione d’Indipendenza, diventata un’icona.

Questa ricorrenza è stata l’opportunità per riflettere sul fatto che forse, nella frenetica corsa verso l’efficienza, stiamo trascurando un’abilità preziosa. A dirlo non sono solo gli appassionati di carta e penna, ma anche numerosi esperti in discipline come la neuroscienza, la psichiatria e la psicoterapia, i quali sostengono, sulla base di evidenze scientifiche, che la scrittura a mano, in particolare quella in corsivo, stimola in modo potente il nostro cervello, attivando e supportando diverse capacità cognitive come la comprensione, l’attenzione, la memoria e la creatività. Le aree cerebrali impattate dalla pratica della scrittura a mano sono differenti da quelle coinvolte quando ci dedichiamo alla scrittura digitale: ecco perché i due mezzi possono ritenersi complementari.

Secondo lo studioso Raffaele Morelli, psichiatra e piscoterapeuta, il ritorno alla penna è fondamentale per riflettere meglio su ciò che si sta pensando e dicendo. A differenza del botta e risposta immediato cui siamo abituati sui social media in una logica primariamente reattiva, tenere in mano una penna e guardare la nostra mano mentre le parole prendono forma sul foglio ci permette di soffermarci più a fondo sui nostri pensieri, di arricchirli, di rivedere frammenti di noi stessi e della nostra vita. In altre parole, scrivere a mano significa dedicare tempo per stare con noi stessi e sprigionare nuove energie del cervello che altrimenti non avremmo usato, come la fantasia e l’immaginazione.

Alla luce di queste considerazioni, appare chiaro come questo gesto, categorizzato in modo frettoloso e superficiale come una pratica antica e in disuso, conservi in realtà una straordinaria valenza cognitiva ed emotiva per noi, potenziando il ragionamento e amplificando la connessione con la nostra intimità. La scrittura può assumere una funzione “terapeutica”, permettendoci di entrare in contatto con il nostro io più profondo e al tempo stesso è uno strumento potente di espressione della nostra individualità, ovvero del nostro modo unico di stare al mondo. Entra qui in gioco la disciplina della grafologia, che si occupa di analizzare stili e caratteristiche grafiche della scrittura per trarre informazioni su psiche e comportamento delle persone. Scrivere a mano è a tutti gli effetti un atto che conserva e celebra la nostra unicità e complessità come esseri umani e, in quanto tale, è insostituibile.

Da non sottovalutare la portata artistica e culturale della scrittura nel corso della nostra storia: basti pensare all’importanza cruciale rivestita dalla tradizione manoscritta che ci permette oggi di leggere autori e autrici dei tempi antichi, che, altrimenti, sarebbero andati perduti nell’oblio del tempo. L’Università di Trento ha di recente lanciato una vera e propria rivista manoscritta, a cadenza semestrale, dal titolo Digiti, che nasce da un progetto didattico dedicato allo sviluppo delle potenzialità della comunicazione mediante la scrittura a mano ed è realizzata da studenti, dottorandi e docenti del Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Ateneo. Questo è un esempio rilevante di come oggi si stia provando a sensibilizzare il grande pubblico sul valore intrinseco della scrittura a mano. Un’altra iniziativa degna di nota  è “Scriveteci una lettera”, promossa già da qualche anno dall’associazione toscana di calligrafia Il Calamo, impegnata a diffondere l’arte della bella scrittura.

Bello e utile, forma e funzione: sono gli stessi principi del design che il fondatore della Mela, Steve Jobs, ha appreso, non a caso, proprio ad un corso di calligrafia che, affascinato, decise di seguire, proprio mentre era ad un passo dall’abbandonare l’università. Il suo maestro fu il monaco trappista di origini italiane Robert Palladino, che, con i suoi insegnamenti, trasmise a Steve Jobs una spiccata sensibilità artistica ed estetica, destinata a riecheggiare nella qualità dei caratteri tipografici del primo Mac che tutti conosciamo.

E fu con queste parole che Jobs ricordò quell’esperienza di fronte alla platea dei neolaureati di Stanford, nel suo popolare discorso del 12 giugno 2005: “Alla fine è tutta una questione di gusto. Devi esporti alle cose migliori che l’umanità abbia mai prodotto e poi provare a metterle in quello che stai facendo”.

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