Diritti sul lavoro per le persone Lgbtqia+: i passi concreti oltre il rainbow washing

Le bandiere arcobaleno sulle immagini profilo e i post sui social non bastano. In un giugno ormai stabilmente sedimentato nell’immaginario collettivo come mese del pride, sempre più imprese si inseriscono nel filone “inclusivo” in termini di comunicazione, ma quante davvero applicano quei principi in termini concreti?

Se n’è parlato il 22 giugno nel talk “Diritti lgbtqia+: per un lavoro inclusivo” promosso da Phyd, a partire da un paio di dati che mostrano quanta strada ancora ci sia da percorrere. Il primo: secondo l’ultimo rapporto Istat-Unar, il 61,2% delle persone Lgbtqia+ occupate o ex-occupate nasconde il proprio orientamento sessuale sui luoghi di lavoro per paura di conseguenze negative sulla propria carriera. Il secondo: il 41% di chi ha fatto coming out ha rivelato di aver sperimentato difficoltà nell’avanzamento di carriera, mentre otto persone omosessuali o bisessuali su dieci hanno subito almeno una forma di micro-aggressione sui luoghi di lavoro.

Monia Dardi, Organizational Consultant Diversity Equity & Inclusion di Mylia, Federica Brondoni, partner di Giambrone & Partners e la graphic designer Andrea Boga hanno dato vita al confronto, con la moderazione di Giulia Cimpanelli.

Transgender e discriminazioni in azienda

Andrea Boga ha iniziato raccontando la propria esperienza personale di donna transgender che, prima di approdare al suo attuale impiego di graphic designer in un’agenzia pubblicitaria, ha sperimentato sulla sua pelle la discriminazione. «In due bar in cui lavoravo fui stata mandata via senza motivo, dopo che i titolari avevano saputo che ero transgender – racconta –. In un altro caso, l’amministratore delegato di un’azienda per cui avevo iniziato a lavorare mi spiegò che non voleva saperne di dare un impiego a una persona come me, nonostante a parole l’impresa avesse avviato dei progetti di inclusione».

Per Boga un mondo realmente inclusivo sarebbe «senza etichette»: «Vorrei essere considerata solamente per le mie capacità – spiega –. Per questo alle prime esperienze di colloquio non mi sono sentita obbligata a dare spiegazioni a riguardo. Poi, dopo aver avviato un percorso sui social di racconto della mia storia, sapevo che sarebbe stato impossibile nasconderla. Nel colloquio per l’attuale lavoro di graphic designer ho raccontato questo lato di me e sono stata molto fortunata. Non mi sono state fatte domande a riguardo e mi hanno sempre giudicata per quello che so fare».

La frontiera delle pmi

Una storia positiva che proviene da un mondo – quello della pubblicità – che proprio in questi giorni ha visto scoppiare un caso “me too” in relazione a una importante agenzia italiana. Andrea Boga, invece, ha trovato un ambiente di lavoro inclusivo in una piccola-media impresa. Un caso apparentemente raro, a quanto ha spiegato l’avvocata Federica Brondoni.

«Le grandi aziende almeno affrontano il tema, emettono policy e codici etici a cui devono seguire iniziative concrete – afferma Brondoni –. Per le pmi è più difficile, spesso in questi casi l’amministratore delegato si occupa anche di risorse umane, e non esiste la figura del diversity manager. Poi c’è un problema culturale: gran parte delle pmi si trovano in provincia, dove accogliere persone che non aderiscono al modello cisgender, bianco ed eterosessuale è più difficile. Ma è anche vero che una leva per il cambiamento può venire proprio dalle aziende più grandi, che possono fare pressione sui propri fornitori perché rispettino determinate istanze di diversity e inclusione».

Ma da dove dovrebbe partire un’impresa, piccola o grande che sia, per imboccare il percorso di una vera inclusività? «Io dico sempre a tutte le aziende di fare innanzitutto una survey interna – ragiona Federica Brondoni –. Si stima che almeno 10% della popolazione anche italiana appartenga al mondo Lgbt, quindi il primo passo è cercare di capire se ci sono persone che vivono problemi di discriminazione».

Poi ci sono altre iniziative che aziende possono prendere, come contratti aziendali che, potendo derogare in meglio i contratti nazionali di categoria, possono coprire alcune lacune nelle leggi statali, ad esempio concedendo il congedo genitoriale anche alle coppie omosessuali.

Una minoranza non riconosciuta

Secondo Monia Dardi quella delle persone transgender è una minoranza ancora troppo poco riconosciuta, e chi ne fa parte vive lo stigma di farne parte. In Italia i problemi iniziano dai documenti, dove per legge, anche dopo la transizione, nome e codice fiscale mantengono fede al sesso biologico. Per modificarli è necessario avviare una causa legale, con un iter complesso che può anche diventare doloroso. In altri paesi, tra cui Spagna e Portogallo, sono passaggi molto più semplici.

«Il contesto sociale, orientato a binarismo ed eteronormatività, non aiuta – afferma Monia Dardi –. Le aziende investono poco in questo senso, lo fa solo il 50%. Il primo step è iniziare un percorso di consapevolezza dei propri bias e dei bias di tipo organizzativo, per poi analizzare il percorso che va dall’attraction all’onboarding fino all’offboarding. Un dato importante è la crescente sensibilità dei giovani su questi temi, tanti di loro preferiscono lavorare in realtà che non presentano un forte divario di genere. Esistono alcune best practice come la carriera alias, cioè la possibilità di autodeterminazione nella scelta del proprio genere in azienda».

Dai role model agli annunci di lavoro

Da dove iniziare? «Si può partire con la sensibilizzazione – prosegue Dardi –, invitare delle persone role model, punti di riferimento ed esempi di successo, oltre che usare un linguaggio inclusivo. I passi successivi sono la formazione continua e il lavoro sui processi aziendali, a partire da quelli di hiring. Mi piacerebbe per esempio che gli annunci di lavoro indicassero che la proposta si rivolge a tutto lo spettro degli orientamenti di genere, evitando di usare diciture antiquate e pessime come “ambosesso”.

Secondo Dardi non è la dimensione dell’azienda a fare la differenza. «Anche nelle piccole – conclude –, come dimostra il caso di Andrea, può esserci una sensibilità su questi temi».

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