Pride, il cammino (ancora lungo) per un lavoro davvero inclusivo

Più del 40% delle persone Lgbtquia+ evita di parlare della vita privata sul lavoro per tenere nascosto il proprio orientamento sessuale. Per lo stesso motivo, una persona su cinque evita di frequentare persone dell’ambiente lavorativo nel tempo libero mentre il 34% riferisce di aver subito almeno un episodio di discriminazione durante lo svolgimento del proprio lavoro. I dati, nel mese del Pride, arrivano da Istat e Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) ed evidenziano come il cammino per un lavoro davvero inclusivo sia ancora lungo.

Per il 26% delle persone, infatti, l’orientamento sessuale ha rappresentato uno svantaggio nel corso della vita lavorativa in almeno uno dei tre ambiti considerati, ovvero carriera e crescita professionale, riconoscimento e apprezzamento, reddito e retribuzione. Dati confermati da Ilga Europe (associazione internazionale per i diritti Lgbtquia+ presente all’ONU) che classifica nel 2023 l’Italia al 34° posto su 49 Paesi Europei per politiche a tutela dei diritti umani e dell’uguaglianza delle persone Lgbtquia+. Anche secondo la Gay Help Line l’omobistransfobia non si arresta, in famiglia come sul lavoro, e 3 segnalazioni su 4 riguardano persone transgender per le quali la barriera nell’accesso al mondo professionale è altissima. Parliamo di discriminazioni che possono iniziare già durante i colloqui, per poi proseguire con la creazione di un ambiente ostile sul lavoro e trasformarsi in demansionamento o mobbing.

Le norme in Italia

Eppure, le leggi che vietano le discriminazioni sul lavoro sulla base dell’orientamento sessuale ci sono sono: lo Statuto dei lavoratori rende “nullo qualsiasi patto o atto diretto a subordinare l’occupazione di un lavoratore”, a licenziarlo o a “discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni” sulla base dell’orientamento sessuale; il decreto legislativo del 9 luglio 2003, n. 216,  prevede la parità di trattamento fra le persone e la legge 183 del 2010  estende il principio di non discriminazione nel mondo del lavoro anche in riferimento all’orientamento sessuale.

Per le persone transgender, invece, il riferimento è al decreto legislativo 198/2006 sull’identità di genere e alla sentenza C-13/94 del 1996 con cui la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha applicato “il diritto di non essere discriminato a causa del proprio sesso” anche all’identità di genere.

Fondamentali sono gli sportelli legali offerti da sindacati e associazioni Lgbtquia+, anche se sono ancora poche le persone che vi fanno riferimento. Denunciare significa infatti avviare un percorso che richiede coraggio ed espone a delle fragilità, senza contare che non è semplice avere delle prove inconfutabili a dimostrazione di quanto si denuncia.

La situazione internazionale

La discriminazione sul lavoro della comunità Lgbtquia+ non è un problema solo italiano. Molte persone che appartengono a questa comunità – più di 8 milioni negli Stati Uniti secondo la Ucla School of Law Williams Institute – hanno vissuto esperienze di disagio, microaggressioni e conflitti sul posto di lavoro. Una persona Lgbtquia+ su due tra quelle intervistate dal Center for American Progress (Cap) nel 2022 ha riferito di aver subito una qualche forma di discriminazione o molestia sul posto di lavoro proprio a causa della propria identità di genere o del proprio orientamento sessuale. Saliamo al 70% tra le persone transgender.

La conseguenza è, in molti casi, il licenziamento. Secondo uno studio del think tank Williams Institute on Sexual Orientation and Gender Identity Law and Public Policy, più di un terzo delle persone Lgbtquia+ ha lasciato il lavoro a causa del trattamento ricevuto dall’azienda. Non è diverso in UK dove secondo il Chartered Institute of Personnel and Development, il 40% ha affermato di aver vissuto situazioni conflittuali sul posto di lavoro (dati 2021) e che in molti casi questi conflitti non sono stati risolti.

Parliamo di situazioni che mettono a dura prova chi le subisce e che dovrebbero spingere le aziende a mettere i programmi di Diversity & Inclusion al centro delle loro strategie.

Perché il diversity management fa bene

Come ricorda Indig, agenzia specializzata in comunicazione inclusiva e accessibile che lavora con le aziende proprio su questi temi, schierarsi al fianco della comunità, nel mese del Pride ma non solo, vuol dire avviare azioni concrete che mettano al centro i diritti civili. L’attuazione di queste politiche fa parte del diversity management.

Ad esempio, nel caso delle persone transgender, e del loro sereno inserimento sul lavoro, il Sat Pink (Servizio Accoglienza Trans) spiega che tra le azioni fondamentali rientrano:

  • il rivolgersi alla persona transgender con il genere corretto, quindi utilizzando il genere grammaticale riferito all’identità di genere della persona, indipendentemente dall’aspetto o da quanto riportato nei documenti di identità;
  • il rassicurare chi fa coming out in fase di colloquio sul fatto che questo non pregiudicherà la valutazione;
  • il conciliare il rispetto della privacy del/della dipendente e la necessità di non dichiarare il falso riguardo ai suoi dati anagrafici;
  • il lasciare la libertà di scegliere il bagno che fa sentire ogni persona maggiormente a suo agio;
  • il conciliare l’attività lavorativa con l’inizio di un eventuale trattamento ormonale.

La vera chiave è, in ogni caso, riuscire a creare una cultura che permetta a ogni lavoratore o lavoratrice di raccontarsi liberamente, senza paure o pressioni. Le aziende hanno la responsabilità, ma anche l’opportunità, di contribuire all’avanzamento culturale del paese, portando a casa anche importanti vantaggi. Secondo il Diversity Brand Index, infatti, vi è una crescita potenziale del 20% per le aziende inclusive.

Aziende inclusive in Italia

In Italia, a mappare le aziende più virtuose in termini di inclusione è il Parks Lgbt Diversity Index. Tra le 73 aziende analizzate, dalle assicurazioni Generali a Poste Italiane all’azienda farmaceutica Chiesi, emerge che l’86% ha formalizzato una policy di non discriminazione e che l’orientamento sessuale rientra tra le diversity citate esplicitamente.

Il 52% delle aziende ha anche introdotto un’apposita funzione dedicata al monitoraggio con procedure di whistleblowing, meccanismi di denuncia o segnalazioni. L’87% delle imprese ha previsto delle sanzioni – che possono arrivare fino al licenziamento – in caso di comportamenti inadeguati.

Non solo: il 71% delle imprese si è adeguata alla Legge Cirinnà con la menzione delle unioni civili nei documenti e nelle policy aziendali. Il 34% delle imprese ha facilitato attivamente a livello aziendale la transizione con attività di sensibilizzazione, badge ed email, polizze assicurative integrative e/o rimborso spese mediche.

Agire per azzerare le discriminazioni sul mondo del lavoro è, dunque, un obiettivo di grande impatto sociale. Prendersi cura del capitale umano significa, infatti, anche evitare tutte quelle situazioni che possono creare disagio e che, come nel caso delle discriminazioni legate alla sfera più intima di ogni individuo, possono pesare a livello emotivo e psicologico. Il Testo unico per la sicurezza sul lavoro definisce infatti la salute mentale come parte integrante del benessere di una persona. Una parte che non può essere scissa da quella fisica e il cui impatto ricade sull’intera comunità aziendale, e non solo. Dare – e non togliere o negare – diritti fa star bene tuttə.

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