La Brexit ha fermato l'immigrazione? Solo dall'Europa. Londra ha ancora fame di lavoro

L’indagine sulle nuove geografie del lavoro si interroga sugli effetti della Brexit, entrata in vigore il primo febbraio 2020. Tenacemente inseguita per abbandonare le istituzioni comunitarie, la cui condivisione dello spazio comune avrebbe incrementato a dismisura i fenomeni immigratori nel Regno Unito, la Brexit nell’anno terzo mostra un volto sorprendente. La recente pubblicazione dei dati del National Insurance Number, la statistica dell’assicurazione sanitaria, obbligatoria per chi permane su suolo britannico, da questo punto di vista è spiazzante.

Partiamo dai dati 2022. A fronte di una contrazione degli ingressi dai Paesi UE di 38.407 persone (-21% rispetto al 2021), in Gran Bretagna hanno autorizzato l’assicurazione, dal resto del mondo, di oltre mezzo milione di persone, 503.995, con una crescita del 130%. Uno squilibrio di proporzioni gigantesche tra il flusso in diminuzione e quello in espansione.

Vediamo dentro i numeri questa Brexit che ha funzionato in modalità antimigratoria solo con un gruppo di paesi europei: l’Italia e la Polonia (- 45%), Portogallo (- 43%), Spagna (- 33%), Bulgaria (- 28%), Francia (- 20%), Romania (- 6%) con una linea di demarcazione nitidissima che comprende l’Europa mediterranea e i tre grandi Paesi dell’est. La Romania è ancora il quinto conferitore in assoluto.

Quello che è sorprendente è, invece, il vero e proprio boom di migrazioni proveniente dall’Europa non UE (+ 98.354 persone per + 270%); in questo caso c’è un fatto speciale che spiega quasi integralmente questa crescita esponenziale; con lo scoppio della guerra gli ucraini emigrati in UK sono passati dai 7.742 del 2021 ai 103.134 del 2022. Molto poco rispetto ai tre milioni di profughi accolti in Polonia o oltre il milione in Germania.

Fuori dai confini europei le provenienze più consistenti sono così gerarchizzate, in numeri assoluti: dall’Asia del Sud (+ 192.780 + 114%), dall’Africa sub sahariana (+100.793 + 143%); dall’Asia dell’Est (+50.063 + 235%), dell’Asia centrale (+ 19.710) e del Sud Est (+ 15.517). Molto ridotti, invece, i flussi di Nord America, centro e Sud America, Oceania e Nord Africa tutti sotto le 7.000 unità anche se l’Oceania mostra un + 191%.

Ci sono dei veri e propri “Paesi Continente” che muovono masse: dall’India sbarcano, infatti, in 140.701 (+ 121%), dalla Nigeria in 66.083 (+ 182%), da Hong Kong in oltre 24.000 (quanti dal Pakistan), decuplicano dall’Uzbekistan (+ 773%), con una tendenza che accomuna le repubbliche ex sovietiche (effetto Ucraina?), mentre sono in leggero calo dall’Afghanistan, con geometrie variabili sia rispetto a problemi geopolitici che all’appartenenza al Commonwealth.

Sono stati pubblicati, poco tempo fa, anche i dati relativi al primo trimestre 2023 confrontato con l’omologo del 2022. L’UE ha aumentato di un ulteriore punto – 24% la contrazione, e l’Italia ha ulteriormente ridotto la sua quota rimanendo leader negativa assoluta – 45% (sull’emigrazione italiana si veda il focus di Pietro Segato pubblicato di seguito). Gli italiani immigrati in UK sono circa 12.000. Siamo molto lontani dai 50.000 di qualche anno fa, con una riduzione verticale del tutto in controtendenza rispetto al racconto pubblicato su Bloomberg il 10 gennaio scorso “Italians flock to London Despite Brexit”. Se ne può arguire che, trattandosi di una testata glamour, sia in atto da parte italiana una scalata sociale di posizioni di eccellenza, nella moda, design, food, architettura, che copre con un cono d’ombra l’emigrazione più “popolare”.

Pur rimanendo altissima la crescita di immigrati dal resto del mondo non UE, si è dimezzata: dal + 130% al 71%. Il rallentamento è avvenuto nell’Europa non UE anche se il flusso dall’Ucraina rimane poderoso, è la nazionalità leader (+ 100.698) superando persino gli indiani (+ 95.629). L’Asia del Sud e l’Africa sub sahariana guidano sempre la classifica dei numeri assoluti ma con percentuali inferiori (+ 51%; + 103%).

Prima della pubblicazione di queste statistiche, ogni tanto il sistema nostrano dei media ha riproposto, in modo sempre più stanco, il mainstream populista della “sapienza” britannica, tramite la Brexit, di saper arginare l’immigrazione soprattutto da luoghi che non sono sinonimo di qualificazione. E invece, le inesorabili leggi della demografia e della domanda inevasa di lavoro hanno quasi restituito all’isola lo scettro dell’attrattività, che vale solo al netto della variabile Ucraina.

Questa fotografia ci restituisce un’immagine diversa dalla tendenza europea pre Covid, caratterizzata da forti flussi da sud e da est verso nord. È l’immagine di Paesi in forte invecchiamento demografico e con una base economica dinamica, che domanda lavoro. Demografia e lavoro stanno ridisegnando i flussi in una modalità che sovverte la tradizionale gerarchia “Nord ricco – Sud povero”.

Focus: gli expat italiani in UK

A cura di Pietro Segato

Osserviamo tre diverse fonti statistiche che documentano l’emigrazione italiana nel Regno Unito negli ultimi 10 anni. I dati Istat si riferiscono al numero di cancellati in anagrafe per trasferimento di residenza verso l’estero. I dati AIRE fanno riferimento al numero di iscritti all’AIRE per solo espatrio. L’AIRE è l’anagrafe degli italiani all’estero, è necessario iscriversi per continuare ad avere determinati benefici legati alla cittadinanza Italiana come ad esempio votare. Infine i dati inglesi si riferiscono al National Insurance Number (ONS): attraverso questo certificato si può tenere conto del numero di italiani che lavorano regolarmente in Inghilterra per più di 6 mesi.

Dal grafico notiamo che l’andamento dei dati Istat e AIRE sono molto simili anche se i secondi sono leggermente sottostimati, ogni anno e sembra più dal 2019. I dati dell’ONS sono molto superiori: nel 2016 la fonte inglese supera le 60.000 unità, le fonti italiane non arrivano alla metà. La crescita dopo quell’anno si ferma e arretra. La decrescita durante il 2017 è probabilmente dovuta al referendum per la Brexit tramite il quale la maggioranza dei cittadini Britannici ha deciso di abbandonare l’UE. Questo avvenimento può spiegare inoltre il forte incremento nel 2016 dei dati AIRE, una “corsa alla regolarizzazione” per i cittadini Italiani in Inghilterra, che ha portato ad un aumento del numero di iscritti all’AIRE per espatrio del 50,1% rispetto al 2015 a dispetto di una aumento del 7,4% riguardo i dati Inglesi.

Dopo il 2019 si notano differenze importanti tra fonti inglesi e italiane: il numero di italiani che ottengono il NIN si contrae del 73%, in contrasto con i dati italiani che seguono un trend positivo ripartito tra il 2017 e 2018. Questo dato si può spiegare sapendo che il 31 gennaio 2020 la Gran Bretagna esce ufficialmente dall’UE dando inizio ad un periodo di transizione che durerà fino alla fine del 2020.

Nel 2021 le fonti statistiche italiane certificano un aumento rispetto ai dati inglesi che decrescono. Si nota una convergenza in questo ultimo anno tra le fonti. Nel 2022 il solo dato inglese è di forte riduzione degli italiani (da 20.000 a 12.000). Vedremo se è un trend o solo un momentaneo raffreddamento.

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