La geografia del lavoro nelle grandi transizioni

Oggi il lavoro ha bisogno di una nuova geografia. Quella proposta nel libro di Enrico Moretti nel 2012 non va più bene. La ricordate? Ha avuto un successo internazionale. Si basava sull’assunto che l’occupazione buona legata all’innovazione tecnologica trascinasse anche i servizi in un circuito virtuoso che avrebbe coinvolto “grappoli” di città. Era troppo fiduciosa sugli effetti a raggiera dei processi verticali di innovazione implicati nella grande svolta tecnologica.

In questi dieci anni, i big player della web economy hanno moltiplicato i profitti, ma la distribuzione di ricchezza ha privilegiato le metropoli globali a scapito del resto. Tra i tanti è stato Andrés Rodrìguez-Pose (London School of Economics) che ha evidenziato la frattura, nel 2018, con il saggio “La geografia del malcontento nell’Unione Europea e la vendetta dei luoghi che non contano”.

Flussi globali e variabili territoriali

Scegliere l’approccio geografico per comprendere il lavoro e le sue trasformazioni significa cogliere la potenza dei flussi globali nel ristrutturare, con diversi gradienti di intensità, le città e i territori. Parliamo di gradienti e differenziazioni perché non ci convince l’approccio dualistico tra big player/metropoli globali e luoghi che vengono uniformemente impoveriti come sostituto della contraddizione “pura” capitale lavoro. Le gerarchie non sono così nette.

La geografia del lavoro che ci riguarda è quella della piattaforma urbano regionale nella quale sono del tutto stemperati i confini dello sviluppo locale “autosufficiente”, non c’è una linea di distinzione tra città e campagna e non c’è una nitida gerarchia centro/periferia a base urbana.

I gradienti delle differenze di impatto dei flussi sono dati da almeno quattro variabili: la forza relativa dell’industria nelle filiere globali del valore, l’affermazione di filiere innovative nell’affrontare le grandi transizioni digitale ed ecologica (più quella demografica), la capacità di produzione autonoma dei centri del sapere e delle risorse umane qualificate sia nel generare le filiere innovative sia nell’intrecciarle ai territori della produzione, la ricomposizione sociale di città e territori sotto la pressione dei flussi. Potremmo senz’altro aggiungere una quinta variabile che è la dotazione di infrastrutture materiali e immateriali di comunicazione rapida ed efficiente nella piattaforma e tra la piattaforma e il mondo.

L’analisi di questi “gradienti differenziati” dalle cinque variabili è il programma di ricerca di GoodJob! basato sulla geografia. È la sua parte strutturale. Ma ad essa va associata un’analisi dei processi che riguardano il rapporto tra il lavoro e la soggettività.

Lavoro e soggettività

Il lavoro non è più il primo elemento distintivo nel processo, fondamento di cooperazione sociale e di congiunzione tra il singolo e il collettivo. Il lavoro che è destituito dallo scettro dell’egemonia è quello produttivo, perché al cuore della produzione è stata posta dal capitalismo digitale una macchina di decifrazione delle aspettative dei consumatori, a sua volta integrata nei meccanismi di riproduzione sociale.

Il lavoro, quindi, come dimensione di senso discende sempre più chiaramente dalla visione del mondo, dal frame – cornice cognitiva ed emotiva insieme – del soggetto. Non è un caso che sono anni che il premio Nobel per l’economia premia queste impostazioni psicologiche, soggettivistiche, alla Richard Thaler. L’economia della conoscenza genera delle narrazioni che plasmano il lavoro subordinandolo a riconfigurazioni complessive, il lavoro si identifica sempre di più con i linguaggi che producono visioni del mondo. Nel momento in cui avviene questa riconfigurazione, il lavoro viene frantumato e scomposto.

Da una parte si apre una prospettiva di straordinario impatto in cui il lavoro è espressione e realizzazione di un umanesimo sociale creativo e sostenibile: lavorando si costituisce il sé con la propria visione del mondo, i mezzi sono compatibili ai fini, il senso della vita in comune è del tutto associato anche al reddito che deriva dal lavoro, il soggetto singolo concresce con le relazioni comunitarie.

Dall’altra, invece, si segue una visione del mondo già costituita, si è tecnicamente dei followers e si lavora in forme più o meno “serventi”, a volte servili se non schiavistiche, scindendo il senso dal reddito, dipendendo da un padrone che può anche essere un algoritmo o rimanendo intrappolati in una visione individualistica di lavoratore autonomo che è del tutto eterodiretto.

GoodJob! è un portale che ha l’ambizione di raccontare le nuove geografie dei lavori della prima visione del mondo, con il tacito obiettivo di poter cercare di ricomporli con “il mondo di sotto” dei lavori di servizio non qualificato. L’emblema è il rider, il portatore di merci nell’ultimo miglio.

Per fare questo racconto, dobbiamo adottare categorie del tutto nuove, sperimentare percorsi inesplorati, rompere schemi logori come quello dell’incontro della domanda e dell’offerta di lavoro. Qui ci sono visioni del mondo da far dialogare, cervelli collettivi e nuove istituzioni da generare.

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