Immigrazione qualificata: la storia di Nardos Mengist, giovane migrante che studia e sogna un futuro in Italia

Nel 2050, gli over 65 in Italia potrebbero diventare il 34,5 per cento del totale degli abitanti; il rapporto tra la popolazione in età lavorativa e non, pari a “1 a 1” (Istat 2025). Ciò significa che metà della popolazione non sarà più attiva. Di fronte a questo scenario, attrarre immigrati qualificati è una priorità strategica, oltre che sociale.

Eppure, le barriere all’ingresso restano spesso troppo alte. E una narrativa che guarda solo ai “talenti in fuga” anziché a quelli che potenzialmente potrebbero arrivare, rischia di penalizzare ulteriormente un sistema già fragile. Nardos Mengist, 26 anni, è una studentessa etiope che ha scelto l’Università di Padova per completare il suo percorso di studi. E che in Europa vede il suo futuro, nonostante i gap presenti. «Never give up!» è il suo motto per costruire ponti e creare nuove comunità.

Nardos, il tuo cv parla da solo: due lauree triennali in Etiopia, conseguite in contemporanea, un master a Padova, un percorso di Erasmus in Finlandia e ora un probabile internship in Spagna. Cosa guida questa tua fame di futuro?

«Sono sempre stata curiosa e motivata. E credo nelle possibilità. Comprendo chi si abbatte, pensando che non ci siano abbastanza opportunità per tutti, ma mi è stato insegnato a non lamentarsi, ma ad agire, per uscire dai propri confini e provare a conquistare sul campo ciò che desideriamo».

Andiamo con ordine: in Etiopia hai studiato ingegneria e management. Cosa ti ha ispirata?

«Durante la pandemia, ho scelto di sfruttare al meglio il tempo, studiando in due istituti contemporaneamente: alla Bahir Dar University ho frequentato Ingegneria Civile mentre al Blue Nile College ho seguito il corso di laurea in Business Management. Ho concluso i miei studi con una tesi sulla sostenibilità, ed è stato proprio questo tema a spingermi a cercare nuove opportunità fuori dal mio Paese. Così, sono arrivata in Italia».

Perché proprio il nostro Paese per la magistrale?

«Avevo degli amici italiani che mi avevano fatta innamorare dell’Italia. E poi non cercavo solo un’università, ma una comunità: volevo vivere la cultura, la lingua, la musica, il cibo, la socialità italiana. Volevo fare esperienze nuove e incontrare persone diverse. Questo per me è il senso dell’inclusione. Così ho scelto l’Università di Padova per il mio master in Management for sustainable firms, un’area che mi appassiona molto e in cui vorrei lavorare in futuro».

Hai lasciato la tua famiglia per venire qui?

«Sì, è stato ed è molto difficile. All’inizio li sentivo spesso, ma oggi, a causa della guerra, non riesco più a parlare con loro. Quando sento la loro mancanza in modo insopportabile, esco a camminare. Cammino moltissimo. È il mio modo per sentirmi più vicina a casa».

Hai incontrato delle difficoltà come studentessa straniera in Italia?

«Le sfide ci sono state, soprattutto all’inizio. La barriera linguistica è forte: la lingua è un ponte e quando quel ponte vacilla, è difficile creare connessioni. Mi è capitato anche di piangere per non essere stata compresa. Ma sono una persona adattabile e aperta e non mi sono persa d’animo. Ho incontrato anche molte persone che mi hanno sostenuta, come il professor Paolo Gubitta, ad esempio, che è stato fondamentale, ascoltandomi e motivandomi».

Hai studiato anche in Finlandia…

«Sì, alla University of Eastern Finland. È stata una grande opportunità. Ho trascorso lì quasi cinque mesi con il programma Erasmus: sono stata accolta molto bene e ho incontrato molte meno barriere, anche per la lingua. Inoltre, ho notato una maggiore efficacia occupazionale rispetto all’Italia. Se mando candidature ad aziende italiane, spesso non ricevo neanche una risposta, vengo semplicemente ghostata. Mentre le domande inviate in Finlandia, in Spagna o in Belgio hanno sempre ricevuto una risposta, a volte positiva, altre negativa. Anche questo significa valorizzare i talenti, riconoscendo la dignità almeno di una risposta».

Cosa vorresti dal tuo futuro?

«Vorrei lavorare nell’ambito della sostenibilità aziendale o nel marketing e contribuire a costruire imprese più consapevoli. Sono stata accettata per un internship in Spagna, al King’s College di Alicante, ma non so ancora se accetterò: se trovassi un’opportunità simile in Italia, resterei più volentieri qui. Mi sento parte di questo Paese, ho costruito relazioni, fatto esperienze. Sono cresciuta moltissimo a livello personale. Mi sono riscoperta».

Pensi che l’Italia valorizzi i giovani immigrati qualificati come te?

«Sinceramente, no. Mi sembra che non sia ancora tempo per una reale accoglienza. E l’ostacolo più grande non è linguistico, ma di mindset. Se non cambia la mentalità, molti altri ragazzi e ragazze come me in Italia saranno solo di passaggio».

Cosa dovremmo fare per attrarre e trattenere talenti internazionali?

«Non basta offrire opportunità di studio o lavoro. Serve creare un senso di appartenenza. Gli studenti internazionali non vogliono solo un titolo, ma sentirsi parte di una comunità. È l’integrazione quotidiana che fa la differenza: vivere insieme, lavorare insieme, ascoltarsi. Serve più apertura, più curiosità. E quindi: creare reti reali tra imprese, università e territori; stimolare la co-creazione di soluzioni a impatto e generare opportunità di crescita condivisa. Non si tratta solo di accettare la diversità, ma di comprenderla fino in fondo e valorizzarla».

Cosa diresti a un giovane immigrato o studente internazionale che sta pensando di venire in Italia?
«Il mio motto è “never give up”. Anche se non è facile, è giusto provarci. Solo così possiamo sapere se una certa situazione fa per noi, o meno. Dobbiamo uscire dalla nostra zona di comfort. E ricordarci che il successo non è mai nella destinazione, ma nel viaggio. Le lauree, ad esempio, per me sono state solo una tappa. Ciò che mi ha dato più soddisfazione è stato il percorso, con i sacrifici, le lezioni apprese e le nuove scoperte. Ed è da qui che dobbiamo partire per generare una società più inclusiva, resiliente e multiculturale».

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