
Oltre l’allarme sostituzione: l’AI potenzia le professioni e può colmare il gap di manodopera
Circa dieci milioni di italiani – oltre un occupato su quattro – svolgono professioni che l’intelligenza artificiale può già eseguire, in parte o del tutto, con efficienza crescente. È il dato-faro della ricerca “L’impatto dell’intelligenza artificiale sui lavori italiani” di Fondazione Randstad AI & Humanities, che ha incrociato tre indicatori accademici – automazione, AI cognitiva e machine learning – con l’intera forza lavoro censita da Istat. Oltre 22,4 milioni di lavoratori in Italia che, in misura diversa e in rapporto alle tre dimensioni considerate, vedranno radicalmente cambiato l’approccio e le mansioni richieste all’interno del proprio spazio di lavoro. L’indagine infatti fa luce su una trasformazione trasversale: non sono soltanto gli addetti alle mansioni ripetitive a essere toccati, ma anche laureati e dirigenti.
Il dato, a prima vista allarmante, cambia prospettiva quando si osserva il contesto demografico. Secondo le proiezioni Istat, entro il 2030 la popolazione in età attiva scenderà di circa 1,7-1,8 milioni di unità, quasi il 6% della forza lavoro attuale: l’AI arriva dunque proprio mentre il Paese si avvia verso una penuria strutturale di lavoratori, offrendo un potenziale “ammortizzatore” di produttività.
Lo studio conferma che i sistemi di machine learning eccellono nei compiti cognitivi routinari – verifiche contabili, ricerche di dati, classificazioni – liberando tempo per attività a maggiore valore aggiunto come supervisione, negoziazione e decisione strategica. L’intelligenza artificiale diventa così fattore di integrazione più che di rimpiazzo.
Margine estensivo e margine intensivo
Nella ricerca vengono distinte due diverse traiettorie per la trasformazione portata avanti dall’intelligenza artificiale. Il margine estensivo fotografa le occupazioni che l’AI può spingere verso la sostituzione totale o parziale, per esempio nella produzione, nella logistica e nei servizi di front-line, accelerata dalla recente ondata di modelli generativi. Il margine intensivo, invece, riguarda la metamorfosi delle competenze all’interno dei ruoli che sopravvivono: un’alfabetizzazione digitale minima diventa imprescindibile, mentre la domanda di creatività, pensiero critico e intelligenza emotiva cresce proprio perché queste capacità sono più difficili da replicare algoritmicamente.
Le tre facce dell’esposizione: automazione, AI e machine learning
Considerando la base di 22,4 milioni di occupati, sul piano quantitativo l’indicatore di automazione individua 10,5 milioni di lavoratori ad alto impatto, prevalenza di profili medium-skill (impiegati, addetti vendita, amministrativi) che svolgono mansioni standardizzate; 7,8 milioni risultano invece scarsamente esposti, in larga parte professionisti high-skill. L’indice di AI cognitiva ribalta la prospettiva: 8,6 milioni di addetti altamente qualificati (67% high-skill) sono i più vulnerabili, mentre tra i low-skill quasi otto su dieci appaiono poco toccati. Il machine learning si colloca a metà strada, con 8,4 milioni di occupati ad alto impatto, equamente distribuiti fra profili medi e alti.
Chi è più vulnerabile (e chi lo è meno)
Il genere fa la differenza: l’automazione pesa di più sugli uomini (48,7% ad alto rischio), l’AI e il machine learning sulle donne, che sono sovrarappresentate nelle professioni impiegatizie e liberali altamente digitalizzabili. L’età mostra un gradiente opposto per automazione e AI: i giovanissimi (15-24 anni) sono i più esposti ai robot, ma i laureati tra i 25 e i 34 anni guidano la graduatoria di vulnerabilità all’AI cognitiva. Il titolo di studio accentua la dicotomia: con la sola scuola dell’obbligo il rischio di automazione tocca il 58,5%, mentre l’AI minaccia soprattutto i laureati (69,8% altamente esposti). Anche la cittadinanza conta: i lavoratori stranieri – concentrati in mansioni manuali – sentono più l’automazione, mentre gli italiani patiscono la pressione dell’AI sugli impieghi qualificati.
Una geografia tecnologica del lavoro
Nord e Centro mostrano livelli d’impatto superiori al Sud su AI e machine learning, coerentemente con la maggiore densità di servizi avanzati. L’esposizione varia anche con l’organizzazione del lavoro: chi non fa mai smart working è più soggetto alla sostituzione robotica, mentre il lavoro da remoto, tipico delle funzioni a elevato contenuto cognitivo, si associa a una vulnerabilità quasi doppia all’intelligenza artificiale. Quanto ai settori, costruzioni, turismo e logistica guidano la classifica dell’automazione; finanza-assicurazioni, servizi immobiliari e informazione-comunicazione sono in testa per esposizione all’AI, mentre il machine learning colpisce con forza commercio e servizi finanziari.
Competenze che cambiano, lavori che nascono
Il rapporto evidenzia che, dopo la prima ondata di sostituzione sui task ripetitivi, la domanda di figure specializzate in data science, ingegneria del machine learning e sicurezza informatica supera l’offerta. Nel contempo l’esigenza di soft skill avanzate – creatività, negoziazione, leadership – diventa un moltiplicatore di valore, perché nessun algoritmo le replica integralmente. Da qui l’invito a università e imprese: integrare curricula STEM e scienze umane, puntare su programmi di reskilling continuo e disegnare processi in cui persone e sistemi intelligenti cooperino in modo complementare.
L’intelligenza artificiale non è un vento che spazza via il lavoro umano, ma una corrente che gonfia le vele in un mare reso più vuoto dal calo demografico. Automazione e AI assorbiranno compiti lì dove la forza lavoro si assottiglia, mentre ridisegneranno le mansioni nei ruoli che restano. La sfida è governare la transizione affinché la tecnologia diventi leva di produttività diffusa e non fattore di esclusione: puntare sulle competenze digitali, ma anche su quelle prettamente umane, significa trasformare un’apparente minaccia in risposta concreta al deficit di lavoratori che attende l’Italia già entro la fine del decennio.