 
                Invecchiamento demografico e futuro del lavoro: la sfida invisibile che cambierà tutto
L’Italia è uno dei Paesi più anziani al mondo. Entro il 2060, fa sapere l’OCSE, l’indice di dipendenza degli anziani, definito come il rapporto tra gli individui di età pari o superiore a 65 anni e la popolazione in età lavorativa, oggi al 31%, salirà oltre il 50%. Una dinamica che, associata alla denatalità, rischia di aggravare la carenza di competenze e impone un ripensamento dei modelli organizzativi.
In che modo le aziende potranno rispondere a questa transizione? Secondo Martina Mauri, Direttrice dell’Osservatorio HR Innovation Practice e ricercatrice dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, è tempo di ripensare i percorsi di carriera e i modelli di welfare, mettendo in atto politiche di age management e mentoring intergenerazionale e adottando l’Intelligenza Artificiale come leva per sostenere produttività e benessere. Anche se le aziende che hanno impostato una strategia di ageing al momento restano una minoranza.
L’OCSE stima che il rapporto di dipendenza degli anziani salirà dal 31% (2023) al 52% entro il 2060, superando il 75% nei Paesi più esposti come l’Italia. Che implicazioni concrete vede per fabbisogni professionali, politiche HR e produttività nei prossimi 10–15 anni?
«L’invecchiamento della popolazione e l’aumento del rapporto di dipendenza degli anziani avranno un impatto estremamente rilevante sul mercato del lavoro italiano e sulle aziende. Si assisterà a una diminuzione della forza lavoro attiva, aggravata anche dalla bassa partecipazione di giovani e donne, che già oggi colloca l’Italia tra i Paesi europei con il più basso tasso di occupazione femminile e la più alta incidenza di NEET, acronimo di “Not in Education, Employment or Training”, che descrive i giovani che non studiano, non lavorano e non seguono percorsi di formazione professionale. Le aziende dovranno necessariamente ripensare i loro fabbisogni professionali, poiché sarà sempre più difficile reperire talenti qualificati sia tra i giovani (per via della denatalità) che all’estero, visto che l’Italia risulta poco attrattiva anche per i lavoratori stranieri qualificati.
Le politiche HR nei prossimi anni dovranno orientarsi fortemente su upskilling e reskilling, soprattutto della popolazione over 50, e su modelli di gestione della carriera più flessibili. Sarà indispensabile promuovere l’inclusione attiva di tutte le fasce d’età, valorizzando le competenze trasversali e l’esperienza dei lavoratori maturi, ma anche agevolando il loro passaggio di competenze alle generazioni più giovani tramite programmi di mentoring intergenerazionale. Parallelamente, il welfare aziendale dovrà evolvere offrendo maggiore attenzione alla conciliazione vita-lavoro, smart working, servizi di cura e parental leave più estesi, in modo da sostenere la natalità e aumentare la partecipazione al lavoro delle categorie oggi marginalizzate.
L’impatto sulla produttività può essere duplice: da un lato, rischia di calare se la sfida demografica non sarà affrontata con decisione; dall’altro, le aziende che investiranno in piattaforme digitali, intelligenza artificiale e automazione dei processi HR potranno efficientare la gestione della forza lavoro e personalizzare i percorsi di sviluppo delle competenze, migliorando l’employee experience e quindi la produttività complessiva».
Dalle vostre indagini, quanto è diffusa la percezione dell’ageing nelle organizzazioni e quanto si ricorre alle strategie di Age Management?
«Il tema è ancora sottovalutato da parte delle aziende. La gestione della diversity generazionale non appare come una delle principali sfide da gestire e chi sta facendo iniziative in questo ambito si concentra sulle nuove generazioni. Secondo i dati dell’Osservatorio HR Innovation Practice, il 52% delle organizzazioni ha in atto progettualità per attrarre e/o non perdere le generazioni più giovani, solo 11% per rendere le modalità di lavoro sostenibili per la fascia di popolazione più anziana (es. riduzione lavori usuranti, cambio di responsabilità) e il 9% per ridurre le discriminazioni legate all’età.
Emerge con chiarezza che la cultura organizzativa italiana resta ancora orientata a logiche piuttosto tradizionali. L’inclusione generazionale e la valorizzazione della diversità d’età sono temi spesso poco presidiati, nonostante il crescente impatto dell’inverno demografico. Questo porta a una gestione del capitale umano non sempre attenta a superare i bias generazionali, rendendo l’adozione di politiche di Age Management una priorità dell’agenda HR. Si nota comunque una maggiore sensibilità nelle grandi aziende e nel settore pubblico, dove stanno emergendo modelli virtuosi, ma la strada verso una diffusione capillare appare ancora lunga».
Quali impatti concreti ha la scarsa gestione della diversity generazionale nelle organizzazioni?
«Una gestione insufficiente della diversity generazionale ha impatti sia a livello organizzativo che sul tessuto socioeconomico nel suo complesso. Sul fronte interno, si rischia la perdita di know-how: i lavoratori senior, spesso portatori di competenze distintive e memoria storica, possono uscire dall’azienda senza aver trasferito il proprio sapere alle generazioni più giovani. Inoltre, la scarsa valorizzazione delle diversità porta a una riduzione dell’engagement e della motivazione delle persone, all’aumento del turnover e a difficoltà nel trattenere e attrarre talenti, in particolare le professionalità altamente qualificate che già oggi spesso emigrano. Le organizzazioni che non valorizzano in modo sinergico le diverse generazioni possono quindi soffrire un calo della produttività, minore adattabilità al cambiamento, minore capacità d’innovazione e difficoltà a rispondere alle nuove sfide del mercato. Sul piano collettivo, tutto ciò contribuisce a rallentare la crescita economica, a indebolire la coesione sociale e a gravare ulteriormente sui sistemi previdenziali e sanitari già molto stressati dall’aumento della popolazione anziana. Inoltre, una scarsa gestione della diversity generazionale genera anche una minore attrattività dell’azienda nei confronti dei giovani. Infatti, se le organizzazioni tendono a privilegiare la seniority e non adottano criteri meritocratici basati sulle competenze, i giovani difficilmente si sentiranno valorizzati e motivati a entrare o restare in azienda. Questo rischia di aggravare ulteriormente il talent shortage, ridurre l’innovazione e compromettere la capacità dell’azienda di rinnovarsi e restare competitiva sul mercato. Promuovere un approccio trasparente e inclusivo è quindi fondamentale per attrarre e trattenere anche le nuove generazioni».
Quali potrebbero essere le iniziative più efficaci per favorire la collaborazione intergenerazionale?
«Si potrebbero attivare programmi di mentoring e reverse mentoring, ovvero la promozione di uno scambio continuo di competenze tra senior e junior, facendo sì che il sapere esperienziale e i nuovi approcci digitali si contaminino positivamente; creare team di lavoro misti così da sviluppare soluzioni innovative sfruttando la varietà di punti di vista; personalizzare i percorsi di formazione e crescita, con opportunità di aggiornamento continuo, anche tramite piattaforme di e-learning avanzate; smart working ed orari flessibili per rispondere alle diverse esigenze di vita (es. cura dei figli o dei genitori anziani) e adottare strumenti di ascolto e feedback costante per prevenire derive discriminatorie e intervenire tempestivamente con azioni di sensibilizzazione. Infine, investire su welfare aziendale inclusivo (childcare, parental leave, supporto alla genitorialità) è fondamentale per favorire la collaborazione e il benessere di tutte le fasce d’età».
Sempre l’OCSE avverte che, senza contromisure, l’invecchiamento può rallentare la crescita del PIL pro capite: crede che una risposta possa venire anche da nuove tecnologie ed AI?
«Assolutamente sì. Le nuove tecnologie, con particolare riferimento a intelligenza artificiale, automazione e analytics predittiva, costituiscono una delle risposte più efficaci alle sfide poste dall’invecchiamento demografico. L’adozione di queste soluzioni permette di ottimizzare la gestione delle risorse umane, facilitando attività come il reclutamento, la selezione e la personalizzazione dei percorsi di sviluppo. Le piattaforme digitali consentono anche di accelerare i processi di upskilling, rendendo accessibili formazione e aggiornamento continuo a tutte le fasce d’età, oltre a migliorare l’employee experience e la produttività complessiva.
L’impatto ovviamente non riguarda solamente la Direzione HR, ma le singole persone. Secondo i dati dell’Osservatorio HR Innovation Practice l’utilizzo di strumenti di AI da parte dei lavoratori continua a crescere: il 32% (+23%) dichiara di aver già utilizzato soluzioni di AI nell’ultimo anno. Percentuale che sale al 43% per i white collar e al 54% per la Generazione Z. Qual è ad oggi l’impatto dei sistemi di AI sulla produttività? Dall’analisi sui lavoratori emerge che, in media, questi strumenti vengono utilizzati per il 20% delle attività, ottenendo un risparmio di tempo del 26%, equivalente a circa 30 minuti al giorno. Per coloro che utilizzano quotidianamente queste soluzioni, si arriva fino a circa 50 minuti di tempo risparmiati al giorno. Il potenziale è elevato: l’utilizzo attuale è ancora sporadico e, inoltre, il 18% dei lavoratori che potrebbe già farne uso, non ha ancora iniziato a farlo. Il tempo “guadagnato” viene utilizzato nella maggioranza dei casi per svolgere le stesse attività ma con una produttività maggiore (60%) o per svolgere altre attività a maggior valore aggiunto (53%).
Le aziende che sapranno cogliere appieno le opportunità offerte dalla digitalizzazione saranno più resilienti e potranno non solo contenere l’impatto negativo sull’economia, ma anche rilanciare la competitività del sistema Paese».
Cos’è per lei un “good job”, un lavoro buono?
«Un “good job” è anzitutto un lavoro dignitoso, sicuro e valorizzante, che offre una retribuzione adeguata, possibilità di crescita personale e professionale, prospettive di lungo termine e un ambiente inclusivo. È un lavoro che permette di conciliare vita privata e lavorativa, garantendo flessibilità e attenzione al benessere psicofisico. Un “lavoro buono” è anche quello che favorisce l’apprendimento continuo, l’innovazione, l’espressione del proprio potenziale e la partecipazione attiva in tutte le fasi della vita lavorativa, valorizzando la diversità e promuovendo una cultura orientata alla responsabilità, al rispetto e alla sostenibilità sociale».
Nella foto: Martina Mauri, Direttrice dell’Osservatorio HR Innovation Practice e ricercatrice dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano
