Lavoro, segnali dagli Usa: stretta sullo smart working e dimissioni in frenata

Uno degli insegnamenti più significativi che la pandemia ci ha lasciato riguarda il mondo del lavoro, ed è la scoperta che si può lavorare anche da casa senza perdere produttività e migliorando la qualità della vita. Durante la quarantena, infatti, buona parte dei lavoratori, eccetto quelli considerati “essenziali” e pertanto autorizzati a muoversi liberamente, hanno interrotto la classica routine casa-ufficio svolgendo la giornata lavorativa tra le mura domestiche.

Il termine “smart working” non è mai stato così in voga. I lavoratori hanno compreso che le mansioni che svolgevano in ufficio potevano essere portate a termine comodamente da casa, aumentando la qualità della vita sottraendo tempo al pendolarismo e, allo stesso tempo, diminuendo gli spostamenti e le emissioni. A pandemia conclusa, alcuni datori di lavoro hanno prolungato il periodo di smart working integrandolo nelle politiche aziendali e in risposta, i dipendenti hanno mostrato un’ampia preferenza per il lavoro a distanza. Negli ultimi tempi, però, alcuni segnali mostrano un’inversione di tendenza: molte aziende infatti stanno cominciando a incentivare il ritorno in ufficio e i lavoratori spesso non sono d’accordo.

Da luglio 2023, i dati di Kastle Systems e riportati dalla BBC misuravano i movimenti di ingresso negli uffici, mostrando che l’occupazione media del posto di lavoro tra 41.000 aziende negli Stati Uniti era pari a circa il 50%. «I dirigenti senior stanno perdendo la pazienza – afferma Brent Cassell, vicepresidente della divisione HR della società di consulenza Gartner, intervistato dalla BBC –. Molte aziende hanno formalmente introdotto orari di lavoro ibridi nella primavera del 2022, ma la maggior parte delle strategie sono state caratterizzate da riaperture soft: “Vi rivogliamo, i vostri badge funzionano, non controlleremo le presenze”. Se imprese del calibro di Starbucks, Disney e Google affermano di aver  bisogno che i propri dipendenti tornino alle loro scrivanie, è probabile che le aziende più piccole vedranno il loro esempio e lo seguiranno».

Le strategie delle big tech

La notizia che Zoom, la compagnia conosciuta principalmente per il lavoro da remoto, stia introducendo un modello di lavoro ibrido, rappresenta un cambiamento paradossale. L’azienda sta adottando un approccio più incentrato sul lavoro in presenza, chiedendo ai suoi dipendenti di risiedere entro un raggio di 80,5 chilometri da un ufficio e di pianificare di essere presenti per lavorare in presenza almeno due volte a settimana. Zoom ha pianificato l’inizio del suo piano di rientro in azienda per settembre.

Ma non è l’unica azienda ad aver scelto questo mese per implementare i piani di rientro in ufficio. JPMorgan Chase nel 2020, Google nel 2021 e Apple nel 2022 hanno legato i loro piani al periodo post-estate. Secondo Sue Asprey Price, CEO Work Dynamics in EMEA e intervistata dalla BBC, l’autunno porta con sé l’idea del ritorno alla routine lavorativa, dopo la pausa delle vacanze estive. Oggi le aziende comunicano in modo più diretto suggerendo i giorni della settimana in cui lavorare in presenza e spesso il mese scelto per iniziare è proprio a settembre.

Meta ha previsto una “In-Person Time Policy” dal 5 settembre: si tratta di una nuova strategia che implica il monitoraggio delle presenze tramite i badge di accesso. La mancanza di conformità a questa politica sarà considerata come una violazione disciplinare, con possibili conseguenze fino al licenziamento. Un altro colosso dell’economia digitale, Amazon, sta inviando avvisi disciplinari via e-mail ai dipendenti che non si presentano in ufficio per almeno tre giorni a settimana.

Il quotidiano The Guardian riporta che il CEO di X (il nuovo nome di Twitter) Elon Musk ha ordinato a tutti i dipendenti dell’azienda di rimanere in ufficio a meno che non fossero stati espressamente esentati, e che la Disney nel gennaio di quest’anno ha comunicato ai propri dipendenti che lavoravano da casa di tornare in ufficio quattro giorni alla settimana.

In controtendenza, in Italia, il caso di Tim, che da settembre ha avviato una sperimentazione su mille persone che lavoreranno quasi al 100% da remoto. Il lavoro verrà svolto interamente da casa, con l’eccezione di un rientro in ufficio previsto ogni 15 giorni, ossia due volte al mese, al fine di facilitare incontri e collaborazioni tra i diversi team.

Le grandi dimissioni si stanno rimpicciolendo?

Un’altra conseguenza della pandemia che oggi sembra in fase di rallentamento è il fenomeno delle grandi dimissioni. Secondo un articolo dell’economista Francesco Seghezzi sul quotidiano Domani, nel luglio 2023 il tasso di dimissioni negli Stati Uniti è tornato ai livelli del 2019, dopo un periodo di aumento subito dopo la pandemia. Seghezzi suggerisce una correlazione tra il fenomeno delle grandi dimissioni e il favorevole andamento economico, che avrebbe reso più agevole per i lavoratori trasformare una certa insoddisfazione accumulatasi durante la pandemia in effettive dimissioni dal posto di lavoro.

Tra le motivazioni c’è sicuramente il tema dei salari ma la questione è più ampia: si utilizza il  termine “quiet quitting” per descrivere la situazione in cui i lavoratori limitano le attività lavorative al minimo necessario per adempiere alle responsabilità previste nel loro contratto. Altre ricerche hanno rilevato un rinnovata attenzione per la vita privata e familiare, influenzata anche dai notevoli cambiamenti nelle priorità e nelle abitudini post pandemia.

È possibile affermare che sia in atto una mutazione nella concezione del lavoro contemporaneo. Il rallentamento dei fenomeni dello smart working e delle grandi dimissioni rappresentano segnali da registrare con attenzione. È ancora presto per dire se indichino l’inizio di un ritorno a uno scenario simile a quello pre-pandemia o se, al contrario, siano parte di uno scenario più complesso e in mutamento.

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