Maternità e lavoro, quanto pesa la child penalty

La chiamano “Child Penalty” ed è letteralmente il costo che la genitorialità ha sul mondo del lavoro. Un prezzo che a oggi, in Italia, è interamente pagato dalle donne. Per questo, celebrare la maternità vuol dire – necessariamente – fare i conti con cosa essa significa in termini lavorativi. Un dato su tutti: il tasso di occupazione delle donne tra i 25 e i 49 anni passa dal 72% per le donne senza figli al 53% per quelle che ne hanno almeno uno di età inferiore ai sei anni. La presenza di figli, soprattutto se in età prescolare, erode di fatto la partecipazione lavorativa femminile. Il tasso di inattività delle donne in Italia per necessità assistenziali, infatti, è il 35,7%, rispetto a una media europea del 31,8 per cento. E un quadro poco favorevole alle madri lavoratrici emerge anche dai dati raccolti dall’INL sulle dimissioni: nel 2021, delle 52.436 convalide totali, 37.662 (il 71,8%) si riferiscono alle mamme.

Del resto, lo sappiamo: mancano gli asili nido. Carenza a cui per troppi anni abbiamo pensato di supplire ricorrendo al welfare familiare. Una dimensione di prossimità che oggi non regge più. Il paese reale è diverso rispetto a quello di qualche decennio fa: i nuclei sono scomposti, il luogo di lavoro – e di vita adulta – non coincide quasi mai con quello dell’infanzia, dunque dei genitori / nonni (alias: nuove tate). Le famiglie, e le donne in particolare, sanno benissimo cosa significhi fare domanda per un posto in un asilo nido pubblico preparandosi già a vagliare le – costose – opzioni B, fatte di nidi privati, tagesmutter (ovvero nidi familiari) e babysitter a domicilio. A oggi, meno di 27 bambini su 100 under 3, hanno posto nei nidi pubblici, con ampi divari territoriali (al Sud non superiamo il 14,5%). Il PNRR sembrava poter essere la panacea con 4,6 miliardi di euro stanziati per la riqualificazione e la costruzione di nuovi asili nido e scuole dell’infanzia su tutto il territorio. Obiettivo: creare almeno 260mila nuovi posti per i più piccoli, raggiungendo entro il 2026 il livello europeo del 33%. Ma tale goal sembra sempre più difficile da raggiungere. La querelle è lunga e complessa e tra ritardi e recriminazioni reciproche non vi è la certezza che gli enti locali riescano ad aggiudicare il 100% dei lavori entro giugno, così come richiesto dalla Commissione Europea per poter erogare la quarta rata dei fondi.

Nel frattempo, le famiglie aspettano. E aspettano soprattutto le donne, che celebrano la Festa della mamma ma restano, proprio a causa della maternità, sempre più spesso in panchina. Basti pensare che il lavoro svolto in casa dalle donne come cura parentale, sul totale del tempo di lavoro familiare svolto da coppie in cui entrambi sono occupati, è pari al 63% (Rapporto BES 2020). Cosa che porta le donne, di conseguenza, a scegliere molto spesso un impiego part time. La percentuale di donne con figli con contratti part-time, infatti, è quasi tripla rispetto a quella delle donne senza figli. È un problema strutturale che con la pandemia si è esacerbato ulteriormente, costringendo moltissime donne a uscire definitivamente dal mondo del lavoro.

Ma quanto vale la child penalty? I calcoli dell’INPS sono chiari: i salari lordi annuali delle madri lavoratrici sono inferiori di 5.700 euro a quelli delle donne senza figli. E questo si ripercuote, inevitabilmente, sull’assegno pensionistico. Per questo, più che stupirci quando leggiamo i dati dell’ennesima decrescita demografica – il 2022 ha sancito il record negativo di nascite, -1,9% per 392.598 registrazioni all’anagrafe –, dovremmo agire prima, evitando di mettere le donne di fronte a un bivio: lavoro o maternità? Famiglia o carriera?

Per festeggiare veramente le mamme, a cui chiediamo ancora di pagare un prezzo altissimo in termini di realizzazione professionale, autonomia personale e indipendenza economica, dovremmo quindi porre l’accento sulla condivisione dei bisogni di cura, sulla ripartizione più bilanciata delle attività domestiche e sull’attivazione di reali misure di conciliazione. Perché in questa partita, tutti possono giocare un ruolo importante. Anche e soprattutto le imprese. Le organizzazioni possono e devono adottare strumenti per favorire una gestione equilibrata dei tempi di vita-lavoro delle lavoratrici e dei lavoratori (ad esempio: soluzioni di flessibilità oraria in entrata/uscita banca ore, smart working). A questo si possono aggiungere percorsi di accompagnamento per le madri che rientrano post-maternità e servizi dedicati per aiutare nella gestione dei figli (asili nido aziendali o convenzioni stipulate con strutture private che consentono l’iscrizione dei figli dei dipendenti a condizioni agevolate).

C’è chi già lo sta facendo: Danone, ad esempio, ha lanciato la Caregivers Policy e programmi psicologici ed economici di accompagnamento alla gravidanza e al puerperio. Non solo: mantenendo un canale di comunicazione attivo con le mamme, consente alle lavoratrici di rimanere aggiornate anche durante il periodo di congedo. Ancora: l’azienda integra con un contributo economico il periodo di maternità facoltativa, portando la retribuzione della neomamma dal 30% al 60%. A tutto ciò si aggiunge la flessibilità dell’orario di lavoro, che in occasione dell’inserimento dei figli nell’asilo nido, viene esteso, ed è stato innalzato a 10 giorni il congedo consentito per malattia dei figli fino ai 13 anni di età.

Qualcosa di simile accade in Peroni in cui da aprile 2023 è possibile usufruire di 22 giorni di congedo di paternità (10 giorni aggiuntivi di congedo da sommare a quanto già previsto per legge), fruibili entro il primo anno di vita della figlia o del figlio, anche in modo non continuativo, con un’indennità pari al 100% dello stipendio. Ancora: è previsto fino all’80% di lavoro da remoto per tutti i neo-genitori fino ai 3 anni della figlia o del figlio e un percorso di mentoring dedicato a tutte le neo-mamme e i neo-papà per favorire il rientro in azienda e supportarli in questa nuova fase di vita. Sono iniziative che non solo supportano concretamente il binomio maternità – carriera, ma aiutano anche a scardinare gli stereotipi ancora troppo presenti nel nostro paese per cui “i figli sono delle mamme”.

In definitiva, piuttosto che biasimare le nuove generazioni bollandole come “troppo egoiste” perché poco propense alla maternità-genitorialità, dovremmo forse preoccuparci di come far sì che più nessuna donna sia costretta a scegliere, tra un’identità – quella materna – e l’altra – quella professionale.

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