Quando sono i lavoratori a scegliersi l'imprenditore

Chi si aspettava che dopo la fine del blocco dei licenziamenti si sarebbero aperte le cataratte della disoccupazione è rimasto deluso. E molto. Per quanto le uscite dalle aziende e dalle imprese, grandi e piccole siano nettamente aumentate rispetto agli anni precedenti la pandemia, il fenomeno è ascrivibile a fattori diametralmente opposti. In buona sostanza è avvenuto che i licenziamenti, pur leggermente aumentati tra la fine del 2021 e il 2022, sono stati di gran lunga superati dalle dimissioni volontarie. Nel biennio 2021-2022 oltre 4 milioni di persone in Italia hanno deciso di interrompere il proprio rapporto di lavoro.

Pochi licenziamenti, tante dimissioni volontarie

Per contro i licenziamenti sono stati 577 mila nel 2021, quando però c’erano ancora in vigore alcuni blocchi eliminati gradualmente il 30 giugno 2021 per gran parte dell’industria, il 31 ottobre 2021 per il terziario e il tessile. Dalla primavera 2022 anche le imprese con oltre 250 dipendenti possono licenziare per motivi economici e il recupero del pregresso ha fatto salire il numero di dismissioni di personale, attestatosi a fine anno a 751 mila. Parlare di ‘scomparsa del lavoro’ sembra quanto meno improprio, tanto che, secondo alcuni analisti mai l’Italia ha avuto tanti lavoratori attivi. A giugno 2023 le persone con un impiego superavano i 23,5 milioni, pari a un tasso di occupazione del 61,5%. nello stesso mese il tasso di disoccupazione si attestava al 7,4%, sceso dal 7,6% del mese precedente. Nel frattempo non si attenua o solo rallenta, il fenomeno delle dimissioni volontarie che rimane anche nel primo trimestre di quest’anno su tassi più che doppio rispetto ai licenziamenti.

Lavoratori che scelgono

Scorrere questi numeri ci ha fatto venire in mente qualche domanda: che fine ha fatto l’Italia del posto fisso, dei concorsi pubblici presi d’assalto, della peggior disoccupazione del G-7? L’Italia delle raccomandazioni e delle clientele? Per cercare qualche risposta abbiamo ripreso in mano ‘L’intelligenza del lavoro’ (Rizzoli, 2020), saggio scritto da Pietro Ichino nel 2020 e da allora riposto in libreria a raccogliere batuffoli di polvere. Dirigente sindacale nella Fiom-Cgil, avvocato, docente universitario, deputato e senatore, Ichino offre un punto di vista sul mercato del lavoro originale e lontano dalle percezioni che ne danno frettolosamente i mass media. I lavoratori, e con loro i sindacati, hanno l’immenso potere, sostiene, di scegliersi l’imprenditore.

 

Domanda e offerta di lavoro non si incontrano

Ichino parte nel suo excursus dalla strutturale incapacità di far incontrare, nel nostro paese, domanda e offerta di lavoro. Il mismatch, come si dice in gergo, ha molteplici ragioni ma un unico grande effetto: centinaia di migliaia di posti di lavoro non possono essere coperti, perché nessuno ha le competenze adeguate. Il che ha un impatto sopratutto sulle zone produttive del Nord. Ma in realtà resta un problema di rilevanza nazionale se non altro perché l’incapacità di offrire percorsi scolastici e di formazione professionalizzanti, in senso lato, rende strutturalmente debole il lavoratore. In una fase in cui l’economia della conoscenza sta diventando preponderante, dove persino per i più banali lavori manuali è necessario sapersi destreggiare con un computer o un dispositivo elettronico, è chiaro che c’è una fetta di lavoratori piuttosto ampia che rischia di rimanere spiazzata. Ma non saranno battaglie di retroguardia a salvarli.

Relazioni industriali da innovare

Nel corso del Novecento si è consolidato un modello di reciproche protezioni che hanno permesso agli imprenditori di avere il monopolio sulla propria forza lavoro e per contro un contratto di assicurazione che offre ai lavoratori garanzie senza eguali nel mondo occidentale. La rigidità del mercato del lavoro, la bassa produttività e il conseguente livello salariale che pone l’Italia in fondo alla classifica dei paesi Ocse sono il risultato di queste sedimentazioni.

Rompere il monopolio degli imprenditori

Il modello è rimasto ancora oggi pressoché intatto ma, per uscire da questa situazione, suggerisce Ichino, è necessario liberalizzare la concorrenza tra imprenditori, offrire un’adeguata informazione che consenta ai lavoratori di rilevare nuove e diverse opportunità di impiego e garantire il pluralismo sindacale. Il sindacato, in particolare, deve concentrarsi di più sugli aspetti attivi che su quelli difensivi. Il lavoro, dice Ichino, valutando la qualità dei progetti industriali, accettando la variabilità della retribuzione rispetto alla produttività, orientandosi al risultato invece che alla presenza, molto di più che non asserragliandosi nel fortino dei contratti collettivi nazionali.

I dati che abbiamo illustrato sopra, tuttavia, dicono che in Italia alcuni milioni di lavoratori negli ultimi tre anni, non sia rimasta ad attendere cambiamenti legislativi o delle relazioni industriali e hanno deciso, in proprio, di selezionare il miglior datore di lavoro rispetto alle singole esigenze.

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