«Settimana corta? Prima ripartiamo dai diritti». Intervista a Francesca Coin

Lavorare per quattro giorni alla settimana, anziché cinque, ci renderà più felici? In un paese, come l’Italia, in cui il 96% delle persone si dichiara insoddisfatta del proprio lavoro (il tasso più alto in Europa), la valutazione sull’efficacia della settimana corta ha senso solo se declinata in una dimensione olistica e se valutata con lo sguardo del lavoratore. «È da qui che devono partire e tornare tutti i discorsi sul lavoro, con la consapevolezza che il sistema che abbiamo conosciuto fino a oggi è fallito e che solo ridando valore al capitale umano potremo provare a ricostruire un nuovo senso del lavoro» – afferma Francesca Coin, sociologa della Scuola universitaria professionale della Svizzera, esperta di lavoro e diseguaglianze sociali.

La settimana corta è un tema caldo, ma prima guardiamo al contesto: le dimissioni in Italia sono più di 2 milioni, ma quel filo che prima le aveva saldamente legate a uno stress da post pandemia, sembra farsi più sottile. Qual è la lettura che dà a questo fenomeno? 

«Abbiamo provato a tacitare le grandi dimissioni, a dire che: no, quell’onda che stava travolgendo gli Stati Uniti, da noi non sarebbe arrivata. E invece, eccoci qui. Ci siamo dentro pienamente e chi si occupa di HR lo sa bene. Per altro, vorrei ricordare che dimettersi in Italia è molto più sfidante che in America, dove il mercato è più dinamico ed è più agevole trovare una nuova occupazione. E allora, perché lasciamo il lavoro? Perché accettiamo questo rischio? Perché siamo stanchi. Perché il modello produttivo tradizionale ha fallito. Perché abbiamo capito che il nostro lavoro, tranne per alcune categorie, non è essenziale. Dunque, ci chiediamo: perché ci chiedono di viverlo con ritmi così pressanti e sfiancanti? È una crisi che il Covid ha evidenziato ma che era già presente da tempo, almeno dal 2017-2018».

A questo malessere abbiamo provato a dare risposte diverse: prima si è agito sullo spazio del lavoro, sperimentando lo smart working o il lavoro ibrido, ora si agisce sul tempo, con il modello dei quattro giorni. Ma bastano modelli organizzativi nuovi per gestire un bisogno così profondo e radicale di cambiamento?  

«Un articolo del Guardian qualche giorno fa ha titolato: “La settimana di 4 giorni è la risposta a tutti i problemi”. Quando l’ho letto ho pensato che fosse una frase piuttosto forte, ma è efficace: ci spinge a parlare di lavoro, cosa che non accadeva da moltissimo tempo. Personalmente, anche se credo che agire solo su tempi e luoghi di lavoro non significhi incidere sulle cause del malessere, ritengo positive le nuove sperimentazioni, purché si tenga presente un fatto: il vero lavoro da fare è sugli organici. Abbiamo pensato per anni a esternalizzare per l’esigenza di tagliare dei costi. La produzione snella non è altro che questo: abbiamo chiesto alle persone di lavorare il doppio, fino a che quelle stesse persone hanno raggiunto un punto di non ritorno».

Quali sono, dunque, i benefici di questa sperimentazione?

«Lo studio pilota effettuato in Inghilterra ha dimostrato che tagliare una giornata di lavoro migliora i tassi di assenteismo per stress, burnout e malattia, aiuta nella redistribuzione dei carichi domestici e, riducendo gli spostamenti, fa anche bene all’ambiente. Non solo, avendo più tempo per ricaricarci, possiamo lavorare meglio, dunque siamo più produttivi. Attenzione però perché da questo modello restano fuori gli autonomi, che continueranno a lavorare a progetto, a volte anche 7 giorni su 7. E anche alcuni settori, come la sanità o il lavoro sociale, ad esempio, continueranno a essere molto esposti. Per questo, bisogna invertire la tendenza, internalizzare e agire sulle competenze, formando i professionisti di cui abbiamo bisogno e che oggi non riusciamo a trovare sul mercato».

Credi ci sia una componente generazionale nell’immaginare un “lavoro nuovo”?

«La mia generazione è cresciuta dando per scontato che si lavorasse cinque giorni alla settimana per otto ore al giorno. La nuova generazione, invece, ha iniziato a mettere in dubbio questo modello. Ha capito che è possibile definire dei percorsi diversi. Ribadisco però che la discussione su “quanto” si lavora deve andare di pari passo su “come” si lavora, quindi: dire addio alle finte partite iva, ad esempio. Questi sono temi che vorrei diventassero davvero oggetto di dibattito».

Fino a qui abbiamo parlato di lavoratrici e lavoratori, ma come incide tutto questo sulle imprese? 

«La cosa incredibile è che il fallimento del modello di lavoro che abbiamo adottato fino a oggi si ripercuote non solo sul personale dipendente, ma anche sui vertici. Pensiamo a come sono saliti i costi nelle aziende e a quanto sia difficile oggi riuscire a trovare, formare e trattenere i talenti. È indispensabile, quindi, anche per la parte datoriale immaginare nuovi modelli».

Ma con un modello da quattro giorni non rischiamo di irrigidire ulteriormente la gestione del lavoro e di creare nuove forme di stress? 

«Il modello funziona solo se i carichi vengono redistribuiti in maniera diversa, se si articola la settimana corta in maniera specifica da settore a settore, a seconda del ruolo ricoperto. Per questo non possiamo prescindere da un dialogo con le persone. Il problema centrale è questo. Ed è un tema importante anche se parliamo di lavoro autonomo: ciò che mi spaventa di più, ad esempio, di chi lavora come freelance è proprio l’assenza di conversazione, l’essere soli, la totale individualità che espone inevitabilmente a maggiori vulnerabilità».

Un nuovo linguaggio, un dialogo da ricostruire: tutto questo presuppone, però, un cambiamento radicale nella cultura del lavoro.

«Assolutamente sì, e per l’Italia è una sfida grandissima. Parliamo di un paese composto per la maggior parte da PMI familiari in cui la dimensione patronale è sempre stata essenziale. È un Paese, il nostro, che oggi deve recuperare tanto terreno in termini di diversity, di sicurezza e di diritti. In questi anni, abbiamo lavorato solo per contenere i costi e abbassare i salari, che oggi sono tra i più bassi in Europa. Tutto questo ha generato una situazione di emergenza. Oggi, la stessa narrazione del lavoro è alterata: viviamo in una colpevolizzazione permanente del lavoratore e le due parti in causa non si parlano. Ecco perché Gallup ci dice che il 96% delle persone in Italia è insoddisfatta del proprio lavoro, il tasso più alto in Europa. Siamo sotto ricatto, e non dobbiamo stupirci se poi tante menti brillanti espatriano. Cambiare cultura è indispensabile e lo è altrettanto tornare a parlare di diritto del lavoro, a partire dai banchi di scuola».

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