Il regista Erik Gandini racconta After Work: l'automazione batterà l'etica del lavoro?

L’ultimo film di Erik Gandini è un documentario dal titolo provocatorio: “After Work”, presentato in anteprima italiana al Biografilm Festival di Bologna e ora distribuito nelle sale italiane e internazionali, è un viaggio attorno al mondo, dagli Usa alla Corea del Sud, dal Kuwait all’Italia, tra stakanovisti e robot, alla ricerca del senso del lavoro per l’uomo nell’era della rivoluzione tecnologica e digitale.

Gandini, che insegna cinema documentario alla Stockholm University of the Arts, ha iniziato a lavorare a questo progetto tre anni fa, a partire da una fascinazione: «Guardare al lavoro come idea e non come necessità, che è il modo tradizionale di intenderlo. Mi interessava provare a esplorare il lavoro come un’idea, a partire dalla situazione in cui ci troviamo oggi, un’era di grandi rivoluzioni tecnologiche che faranno forse sì che in futuro non ci sarà lavoro per tutti, avremo un eccesso di tempo e potremmo assistere, grazie all’automazione e all’intelligenza artificiale, al’emergere di una grande disoccupazione di massa, quella che Yuval Noah Harari chiama “la nascita della useless class“».

«La prima parte del film parla degli Stati Uniti e della Corea del Sud – racconta Gandini – dove l’etica del lavoro è così radicata che spesso si lavora anche quando non c’è la necessità di farlo. Poi c’è una parte in cui cerco realtà alternative, possibili scenari del nostro futuro. Come il Kuwait, dove si vede una realtà simile a quello che potrebbe essere un sistema basato su un reddito di cittadinanza e sulla presenza di macchine. E poi c’è un capitolo ambientato in Italia dove ci sono persone molto ricche, che non hanno mai lavorato in vita loro, e fenomeni di avversione al lavoro come i Neet, che in Italia hanno il primato in Europa, e che mi è interessato osservare con un’ottica che non è quella tradizione, di grande scetticismo».

Di seguito la video intervista integrale a Erik Gandini.

Photo credit: Erik Gandini, photo by Jens Lasthein

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