La recruiter Barbara Targa: «Tra Padova e Bologna, oggi un giovane laureato sceglie l'Emilia»

«Il Nordest è professionalmente attrattivo, ma la cultura è poco accogliente e le imprese faticano a raccontarsi e comunicare subendo così la concorrenza di territori contermini più abituati alla relazione e al racconto». L’analisi lucida e diretta è di Barbara Targa, veneta di origine, con oltre 25 anni di esperienza, specializzata nel mondo dell’executive search, della valutazione della leadership e del coaching, operando su progetti sia a livello nazionale sia internazionale.

Nel suo curriculum spiccano esperienze in diverse società di consulenza HR, quali Elan, Key2People, EXS e recentemente come Client Partner in Chaberton Partners – società di Executive Search, Advisory e Professional Search, con sede in Svizzera, presente in Italia a Milano, Padova e Roma, e con una forte vocazione internazionale con uffici operativi a Zurigo, Vienna, Ginevra, Londra e Parigi.

«Tra Padova e Bologna», è la sintesi estrema di Targa, «un giovane laureato, un quadro o un manager sceglie Bologna. Oggi non c’è partita».

L’abbiamo contattata per provare a mettere ordine tra i vari fenomeni sul mondo del lavoro che riempiono le pagine dei giornali e infiammano gli animi delle persone sui social. Ne è nato un dialogo che intreccia la competitività dei territori e del tessuto produttivo con le dinamiche della domanda e dell’offerta di professionalità e competenze e infine l’orizzonte delle buone pratiche e delle opportunità. Ve lo proponiamo in due puntate.

Siamo partiti dalle grandi dimissioni. Come evidenzia la terza nota trimestrale sulle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro il fenomeno non accenna a diminuire, anzi. Nei primi mesi del 2022 i lavoratori che si sono licenziati volontariamente sono stati 1,66 milioni, rispetto all’anno precedente c’è stato un aumento del 22 per cento. Solo in Veneto, già capitale italiana delle grandi dimissioni nel 2021, sono stati 178.710 e l’incremento sfiora il 34 per cento.

Prima di tutto vorrei un aiuto per definire questo fenomeno e per tracciarne i confini, per lo meno nelle dimensioni e nel tempo.

In realtà il movimento della domanda e dell’offerta nel mondo del lavoro non è tanto geografico, anche se si nota dove ci sono aree più vivaci come il Nordest in termini di imprenditoria e forza lavoro. Nel mezzogiorno ce ne sono meno, ma perché il tessuto imprenditoriale è più povero. Dove c’è maggiore economia c’è maggiore movimento tra i lavoratori, quindi parliamo di Lombardia, Emilia Romagna, Nordest e Piemonte, cioè le regioni dove si concentrano maggiormente i fattori economici. Poi dobbiamo considerare che siamo immersi in un’evoluzione sociale, economica e politica, in un percorso evolutivo e forse non dovremmo più parlare di regioni italiane ma di Europa. Se guardiamo con un binocolo un po’ più focalizzato possiamo notare che l’impatto maggiore di questo fenomeno è sul Nordest e sulle province manifatturiere della Lombardia.

Anche in Emilia i lavoratori si dimettono, ma il fenomeno ha un impatto di quasi 10 punti percentuali inferiore. 

Vedo elementi in controtendenza. In periodo pre Covid, l’Emilia Romagna è diventata un polo di attrazione per neolaureati, per cervelli in fuga o di rientro perché regione e sistema industriale hanno saputo costruire un sistema geografico che ha come centro Bologna, ma coinvolge a raggiera tutti i poli a nord, a sud e a est. Stiamo parlando di comparti industriali ricchi, interessanti, facili da raggiungere e interconnessi in termini funzionali.

Quali sono le differenze principali con il Nordest? 

Le possiamo riassumere in tre punti, tre fratture direbbe un politologo: autoreferenzialità vs condivisione; chiusura vs accoglienza; inerzia vs opportunità, in senso professionale. E poi c’è il problema della comunicazione e rimane il nodo dei livelli retributivi.

Ce le spiega in modo semplice?

In Nordest siamo degli “sgobboni”, lavoriamo tantissimo, siamo innovativi e anche creativi, puntiamo sempre al fare e a raggiungere gli obiettivi. Ma non siamo bravi a creare reputation e a darne visibilità in maniera strutturata. Non ci facciamo abbastanza pubblicità. Oggi in generale il Nordest è rimasto ancora molto autoreferenziale. Manca la disponibilità a condividere, a creare una logica di sistema industriale e a fare rete con le istituzioni, le università, le infrastrutture. Siamo di fronte a culture e sistemi resistenti a organizzarsi in maniera innovativa. Al contrario, come dicevamo sopra, il sistema emiliano interconnette le imprese con i centri di ricerca e accademici, è sostenuto da infrastrutture ‘dorsali’ e condivide programmi e obiettivi con le istituzioni.

Il secondo punto riguarda la difficoltà delle imprese a ingaggiare persone che provengono da contesti diversi e di mettere in atto modelli nuovi di flessibilità e di lavoro da remoto.

Ovviamente non stiamo parlando di operai e personale specializzato, giusto?

Certo, mi riferisco ai livelli manageriali e apicali.  Ora, non voglio generalizzare, ma siccome stiamo in Europa e il mercato del lavoro è aperto da ormai 30 anni, dovremmo ragionare di conseguenza, cioè senza confini e con una geografia allargata. Invece ci troviamo di fronte a situazioni in cui l’accoglienza non è ritenuta un valore, anzi. Tutto quello che non parla la nostra lingua e il nostro dialetto è ‘foresto’ e moltiplichiamo i campanili e le differenze dentro i nostri territori, addirittura con le linee di demarcazione dei fiumi dal Tagliamento al Piave. Come immagina, questo deficit di accoglienza non favorisce la diversità e l’inclusione.

Ovviamente il discorso vale più per le piccole e le medie imprese che per le grandi e più per le aziende a dimensione locale o nazionale rispetto a quelle internazionali. Ma faccio notare come alcune aziende del nostro territorio hanno saputo interpretare il business avvicinandosi maggiormente a concetti di “human centricity” e non solo di “customer centricity”: andando laddove è più semplice attrarre talenti o offrendo condizioni di ingaggio più interessanti e flessibili, preservando sempre le profonde identità dell’azienda stessa, ma allo stesso tempo intercettando compromessi/soluzioni per una evoluzione/cambiamento culturali.

Cosa manca a Nordest che invece le imprese trovano a Milano? 

A Trieste o a Padova è più difficile attrarre talenti e se vuoi crescere hai bisogno di persone che abbinano competenze molto qualificate a esperienze diverse e una buona dose di creatività. E qui siamo al terzo punto: rispetto alla media di mercato con le retribuzioni siamo posizionati più in basso rispetto a fuori, sicuramente meno rispetto alla Lombardia, dipende su Emilia Romagna. Però tra Padova e Bologna un candidato sceglie Bologna. Non solo è più connessa, più vivace, più accogliente, ma soprattutto garantisce un profilo e una reputazione maggiori. Chi vuole fare carriera ha pochi dubbi al riguardo, perché l’Emilia e soprattutto Bologna offrono una visibilità maggiore rispetto al Veneto.

Provo a obiettare che anche a Nordest ci sono fior fior di aziende che consentono carriere solide e ben retribuite.

Sì, ma è anche un problema di comunicazione. Le aziende del Nordest non sono per nulla capaci di creare una brand reputation che non sia solo immagina ma anche una capacità, a partire dalle retribuzioni, di creare visibilità che consenta alle persone di avere voglia di venire qui, perché si sta bene non solo come contesto ma anche in ambito lavorativo. Qui siamo bravi a fare molte cose ma non le rendiamo pubbliche, non siamo bravi a farle sapere, come si dice? ‘Muso duro e baretta fraca’, ecco non ci discostiamo molto da questa definizione. Sappiamo fare le cose molto bene, siamo grandi lavoratori, molto orientati a raggiungere gli obiettivi, ma ci importa poco di renderli attraenti. Per molti imprenditori è semplicemente superfluo.

Le dinamiche di cui parliamo hanno origine ben prima della pandemia. Come si è inserito il Covid in questo contesto?

La pandemia ha creato maggiore consapevolezza nelle persone di cosa mettere al centro della propria vita, ha costretto molte aziende al palo. Solo le grandi aziende con dimensione internazionale riescono ad aprirsi. Lo smart e home working prima del 2020 erano totali tabù. Oggi se ne parla molto e ci sono delle timide aperture nel leggere il lavoro con maggiore flessibilità dell’azienda e maggiore responsabilità responsabilizzazione del dipendente. Personalmente credo che il vero punto di equilibrio sta nelle parole fiducia e buon senso, perché il rapporto tra datore di lavoro e dipendente si sostanzia nel raggiungimento degli obiettivi e non più nella quantità di tempo passato all’interno di un ufficio o uno stabilimento.

È un cambio di paradigma importante. Una manager qualche giorno fa mi raccontava che le imprese statunitensi e anglosassoni stanno facendo shopping di talenti in Italia, consentendo di lavorare in full remote e offrendo stipendi molto competitivi. 

Alcuni hanno visto che poteva essere un vantaggio sotto il profilo dei costi, e vediamo come sono stati riproporzionati gli uffici in Lombardia. Detto questo, la pandemia è stato un evento di accelerazione che ha consentito ad alcune imprese di vedere opportunità, e aumentare la velocità della trasformazione, che riguarda flessibilità, reputazione, visibilità, riposizionamento delle retribuzioni. Alcuni territori e alcuni settori che avevano avviato questi processi anche prima del 2020 sono stati ulteriormente accelerati.

E poi c’è la frammentazione di cui tutti si lamentano ma a cui è difficilissimo mettere mano, immagino.

La nostra è una regione di campanili, in tutti i sensi. Eppure basta allargare lo sguardo, anche di pochissimo per accorgersi che tutte le nostre realtà contermini stanno andando in un’altra direzione. Penso a Brescia e Bergamo unica capitale della cultura del 2023. Confindustria ci sta provando, ma la strada mi sembra ancora lunga. In una barca tutti i componenti dell’equipaggio sono importanti quanto il timoniere. Da noi tutti vogliono fare i timonieri e nessuno l’equipaggio, nessuno vuole partecipare, tutti vogliono vincere. Fare sistema vuol dire anche partecipare e non essere per forza il numero uno, altrimenti il rischio è rimanere soli.

Barbara Targa, di origini venete, vanta oltre 25 anni di esperienza e ha sviluppato la sua professionalità nel mondo dell’Executive Search, della Valutazione della Leadership e del Coaching in diverse società di Human Capital, quali Elan, Key2People e EXS, operando su progetti a livello nazionale e internazionali. Entra in Chaberton Partners nel 2022, come Client Partner Industrial & FMCG.
Il suo «aim» principale è rivolto alle Aziende e ai Manager/C-Level, nella promozione di cambiamenti culturali e organizzativi, in grado quindi di esprimere una evoluzione in ottica di miglioramento e innovazione, tenendo sempre al centro la Persona.
Contraddistinta da forte pragmatismo e spirito imprenditoriale, si è occupata dello start up di filiali e della trasformazione di società nel ruolo di Partner e di Managing Director, attraverso l’integrazione di business. Si dedica allo sviluppo della practice Industrial e FMCG, supportando i Clienti nel passaggio culturale da imprenditoriale a manageriale e nella successione generazionale.
Studi di Scienze Politiche, Barbara Targa è certificata Hogan, Thomas International ed è Coach AICF.

Ti potrebbe interessare